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In Italia i rapporti collettivi sono stati caratterizzati all’origine da forti conflitti ed interventi repressivi dello Stato nei confronti dell’organizzazione sindacale e dello sciopero.


Il codice penale sardo del 1859, che venne poi esteso con l’unificazione del 1861 a tutto il Paese, prevedeva come reato ogni forma di coalizione tra i datori di lavoro e gli operai per indurre ingiustamente ed abusivamente gli operai ad una diminuzione del salario e sospendere, ostacolare o far rincarare il lavoro senza ragionevole scusa. Questo divieto ben rifletteva l’ideologia liberale della libera concorrenza e parità degli individui, come ostacolo al diffondersi delle organizzazioni operaie.


Nella fase successiva, lo Stato provvide a rimuovere i divieti penali al conflitto ed all’organizzazione sindacale, sancendo la libertà di coalizione. Il codice penale Zanardelli del 1889 inaugurò un periodo di relativa tolleranza legale verso il fenomeno sindacale, destinato a durare fino al fascismo. Esso non puniva più sciopero e serrata, ancora parificati nel settore privato, ma solo le violenze e le minacce lesive della libertà di lavoro eventualmente commesse in occasione di conflitto. La tolleranza sul piano penale non impediva che nei rapporti diretti tra datori e lavoratori operassero le regole generali del diritto comune dei contratti.


All’inizio del XX secolo nacquero in tutta Europa una serie di istituzioni pubbliche cui furono conferite competenze in materia di rapporti di lavoro e nelle relazioni industriali.


L’avvento del fascismo interruppe bruscamente tale sviluppo. Furono demoliti i fondamenti del sistema volontario di relazioni industriali e si procedette alla creazione di un sistema sindacale e contrattuale pubblicistico. La legge 3 aprile 1926 numero 563 ammetteva formalmente la libertà sindacale, ma solo un sindacato di lavoratori e datori per categoria produttiva poteva ottenere il riconoscimento legale dal Governo con attribuzione della personalità giuridica. I sindacati riconosciuti avevano ex lege la rappresentatività di tutti i componenti della categoria, a prescindere dall’affiliazione. I contratti collettivi assumevano efficacia per l’intera categoria, con effetti simili alle norme di legge.


La caduta del fascismo avviene il 25 luglio 1943. Uno dei primi atti del Governo Badoglio fu quello di abrogare le corporazioni e le istituzioni tipiche della fase corporativa del regime. La disciplina dei rapporti sindacali è parte essenziale del disegno delineato dai costituenti in tema di rapporti sindacali e politici.


Il modello costituzionale si fonda sulla valorizzazione del lavoro come criterio ordinatore generale dei rapporti tra Stato e società e come fondamento di una maggiore partecipazione dei lavoratori alla vita produttiva e sociale. La disciplina costituzionale del sindacato rientrava in questo quadro, ma ne costituisce uno degli elementi più tormentati e storicamente deboli.


L’articolo 39 sancisce tre principi fondamentali: la libertà sindacale come fondamento delle relazioni industriali; la registrazione del sindacato ed il riconoscimento della personalità giuridica come presupposto per acquisire la capacità di stipulare contratti collettivi nazionali efficaci generalmente per tutti gli appartenenti alla categoria alla quale il contratto si riferisce; l’attribuzione di tale capacità contrattuale direttamente a rappresentanze unitarie dei sindacati registrati costituite in proporzione ai loro iscritti. Prevedeva la possibilità per il sindacato di ottenere il riconoscimento giuridico. Il sindacato, pur essendo riconosciuto quale componente pluralista della società, avrebbe dovuto iscriversi organicamente in un assetto costituzionale con ruoli e funzioni prestabilite da un chiaro regolamento di competenze. La valorizzazione del sindacato è rafforzata dal riconoscimento dello sciopero, posto in posizione privilegiata rispetto alla serrata, nonché del suo possibile uso quale mezzo di pressione economico – politica.


La crisi del modello dell’articolo 39 matura già con la rottura dell’unità sindacale, anche se l’irreversibilità di tale crisi si verifica solo col tempo. Comune a tutti i sindacati è il timore di un controllo pubblico sulla propria organizzazione e sullo sciopero. Il rifiuto di una legge applicativa dell’articolo 39 si consolida, al di là dei motivi anche contingenti, al punto da diventare una scelta di fondo del nostro sindacato, condivisa in sostanza dal potere politico, e non contrastata dal padronato. La disciplina di riferimento dell’ordinamento sindacale diviene da quel momento il diritto privato. Il sindacato assume la natura di associazione non riconosciuta, assoggettata solo alle scarne norme degli articoli 36 e seguenti del codice civile e per il resto demandata alle regole poste dagli Statuti e lo stesso contratto collettivo viene assoggettato alle norme del codice civile sul contratto in generale.


L’articolo 46 prevedeva la collaborazione dei lavoratori alla gestione delle aziende nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge.


Lo Statuto dei lavoratori corrisponde alla legge numero 300/1970. Venne approvata nel mezzo del più intenso ciclo di lotte operaie verificatosi nella nostra storia. Mira a rafforzare la presenza del sindacato nei confronti della controparte imprenditoriale e nei confronti di una pressione di base che rischiava di sfuggire al controllo delle organizzazioni. Riprende l’ispirazione fondamentale della Costituzione di valorizzare il sindacato come agente di trasformazione sociale e di eguaglianza sostanziale, ma senza mettere in questione la scelta privatistica dei decenni precedenti.


Il campo d’intervento è l’azienda, al cui interno il sindacato riceve per la prima volta diritto di cittadinanza. La legge è limitata alla realtà della fabbrica, in cui la modernizzazione delle relazioni sindacali era più necessaria e facilmente praticabile. Nel pubblico impiego, l’estensione dello Statuto è parziale e si affermerà con un processo legislativo a fasi successive.


Negli anni ’70 matura un profondo cambiamento nel ruolo dello Stato rispetto alle relazioni industriali. L’autogoverno delle parti sociali si rivela inidoneo rispetto alle urgenti esigenze economiche poste dalla sopravvenuta crisi nazionale ed internazionale.


Lo Stato diventa un elemento fondamentale delle dinamiche delle relazioni internazionali e vi interviene quale ulteriore contraente, gestore di proprie risorse. Per influenzare i rapporti sindacali, dispone di molteplici risorse. Richiede ai sindacati comportamenti di moderazione e di contribuire ad uno svolgimento ordinato dei rapporti sociali ed ai datori di lavoro il mantenimento di un tasso elevato, od almeno regolare, di investimento. Riceve legittimazione e consenso per la conduzione delle politiche economiche e sociali.


I termini dello scambio sono più ampi rispetto a quelli della contrattazione economica e mettono in gioco risorse pubbliche e private. Le intese del 1977 sono vicine agli accordi sociali di alcuni Paesi nordeuropei.


Parte sociale: rallentamento della scala mobile, contenimento della conflittualità, maggiore flessibilità nell’uso della forza lavoro. Parte del Governo: politiche di sostegno al sindacato, all’occupazione specie giovanile, fiscalizzazione dei contributi sociali, una prima flessibilizzazione della disciplina del lavoro. Parte imprenditoriale: normalizzazione delle relazioni contrattuali e poi una modesta riduzione dell’orario di lavoro.


Per il Protocollo Scotti del 1983, è lo strumento contrattuale ad essere utilizzato in modo quasi esclusivo, sia pure con una forte centralizzazione ed espliciti caratteri triangolari, nel tentativo di stabilizzare l’intero assetto delle relazioni industriali. Presenta anche alcune procedure per la composizione dei conflitti ed un raccordo fra i vari livelli contrattuali.


Negli anni ’80 si profilano condizioni nuove che influiscono nei rapporti tra Stato e parti sociali: la ripresa economica, l’innovazione tecnologica e l’internazionalizzazione dell’economia alimentano tendenze liberiste. Le tendenze non hanno assunto in Italia un carattere assoluto. A fine decennio iniziano ad emergere nuovi temi.


Gli anni ’90 sono dominati dai problemi del risanamento e della concertazione, sancendo la partecipazione dei sindacati confederali alle decisioni macroeconomiche di razionalizzazione delle relazioni industriali.


Il Governo ha un peso più che mai incisivo sulla concertazione centralizzata. Il suo intervento non si esprime nel sostegno economico alle parti, ma soprattutto in attività di direzione e controllo rispetto alle parti sociali. Si impegna ad intervenire per modificare il quadro normativo in tema di disciplina del mercato del lavoro, nonché per ridare sostegno al sistema produttivo.


L’accordo del 24 settembre 1996 (Patto per il lavoro”), nel tentativo di rispondere all’esigenza di risanare i conti pubblici in vista degli impegni assunti a Maastricht, si concentra sulle tematiche occupazionali. Predispone una vasta strumentazione, che ispirerà le importanti innovazioni operate dalla l. n. 196/1997, “Pacchetto Treu”. Dedica notevole attenzione al sistema formativo, attraverso l’istituzione di percorsi di formazione permanente e la revisione delle tipologie contrattuali formative.


I contratti d’area sono stipulati, nelle zone a più basso sviluppo, dalle amministrazioni centrali e locali con le organizzazioni sindacali dei datori e dei lavoratori e gli istituti di credito. Sono tesi a favorire, con investimenti produttivi ed agevolazione creditizia, occasioni di reinserimento di disoccupati, cassaintegrati, lavoratori in mobilità, o l’impiego di giovani nell’ambito di nuove attività.


I contratti di riallineamento perseguono l’obiettivo della regolarizzazione del lavoro sommerso, legittimando a favore delle imprese che li recepiscono, per un periodo transitorio, la corresponsione di salari al di sotto dei minimi tabellari fissati dai contratti nazionali.


L’Accordo sociale per lo sviluppo e l’occupazione del 22 dicembre 1998 stabilisce che la concertazione assurge al ruolo di strumento di coordinamento tra ordinamento statuale ed autonomia collettiva, ma anche tra ordinamento nazionale ed Unione europea. Riconosce una priorità di iniziativa alle parti sociali nella regolazione delle materie di lavoro. Nel caso in cui queste raggiungano un accordo, salvo per le tematiche di rilevanza finanziaria, di trasferire i contenuti dell’intesa e di sostenerne l’approvazione nelle competenti sedi parlamentari. Nelle materie che comportano un impegno di spesa, è previsto un confronto preventivo tra parti sociali e Governo, cui spetta la decisione finale. La parte più innovativa è quella che attribuisce alle intese triangolari concertative la competenza prioritaria per la trasposizione delle direttive comunitarie nell’ordinamento interno.


Il Patto per l’Italia del 5 luglio 2002 è stato sottoscritto da CISL, UIL, Confindustria ed altre sigle sindacali, con la forte opposizione della CGIL. Obiettivo prioritario era l’incremento del tasso di occupazione, in conformità agli obiettivi europei sanciti a Barcellona e Lisbona. Nel tentativo di escludere un potere di veto in capo alle organizzazioni sindacali dissenzienti si evita ogni riferimento al termine “concertazione”, che viene sostituito dallo strumento del dialogo sociale. Il dialogo sociale si contraddistingue per la decisione unilaterale dell’esecutivo di intervenire su determinate e specifiche materie e per la possibilità di assumere l’iniziativa legislativa sulle questioni così individuate.


L’accordo per lo sviluppo, l’occupazione e la produttività del 19 giugno 2003 è stato firmato da CGIL, CISL, UIL e Confindustria. Il Progetto Mezzogiorno del 4 febbraio 2004 è stato firmato da Confindustria, altre confederazioni datoriali, CGIL, CISL e UIL. La loro attuazione, a dispetto della loro natura bilaterale, presuppone nei fatti un articolato e corposo programma di intervento governativo.


L’intervento dello Stato e dei pubblici poteri nelle relazioni industriali ha avuto storicamente un’importanza sempre rilevante. Dagli anni ’70, lo Stato è divenuto anche in Italia vero attore sulla scena delle relazioni industriali. Gli anni ’80 hanno ridimensionato, ma solo in parte, il ruolo dello Stato, riducendo gli spazi di intervento diretto. Gli anni ’90 confermano e rafforzano l’importanza dell’intervento pubblico.


Oggi possiamo distinguere varie funzioni dello Stato rilevanti per le relazioni industriali: la funzione programmatoria e di Governo, la funzione legislativa, la funzione decisoria, che si esplica attraverso la giurisprudenza ordinaria ed amministrativa, le funzioni assistenziali o più generalmente di welfare, le funzioni di gestione dei rapporti di lavoro. Le relazioni industriali sono influenzate dall’insieme del sistema politico istituzionale, delle politiche economico – sociali pubbliche, nonché da eventi economico – politici di carattere globale.


La L. n. 533/1973 riguarda la funzione di composizione delle controversie giuridiche ad opera delle commissioni tripartite di conciliazione operanti presso gli uffici provinciali del lavoro. Lo strumento della conciliazione ha ricevuto un’ulteriore spinta a seguito della riforma del pubblico impiego, in occasione della devoluzione al giudice di pace ordinario delle controversie inerenti i rapporti di lavoro privatizzati. Il legislatore ha esteso il tentativo di conciliazione a tutte le controversie relative ai rapporto di lavoro, sia pubbliche che private, trasformandolo da facoltativo ad obbligatorio.

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