Il diritto del lavoro si divide in due grandi aree: il diritto sindacale ed il diritto del lavoro subordinato. Il diritto sindacale è dominato dalla dimensione collettiva: si parlerà di soggetti collettivi, contratto collettivo e conflitto. Il diritto del lavoro subordinato è dominato dalla dimensione individuale: si occupa essenzialmente della disciplina di regolamentazione del rapporto di lavoro subordinato.
Qualsiasi istituto lavoristico è regolato da un intreccio di fonti: la legge e dal contratto collettivo.
Il contratto collettivo è fonte atipica.
Il diritto sindacale è regolato da norme di base ma soprattutto da un insieme di dottrina e giurisprudenza che nel tempo ha accumulato una serie di principi e categorie che sono quelle che si applicano. Il diritto del lavoro subordinato segue le regole del codice civile che riguardano il rapporto di lavoro subordinato, e poi tutte le regole che sono contenute nella legislazione speciale che sono intervenute.
Il diritto sindacale italiano si differenzia da quello europeo per un motivo ben preciso: abbiamo una disciplina costituzionale (articoli 39 e 40) che ci fornisce un modello di sindacato, di contratto collettivo e di conflitto. Questi articoli se fossero stati attuati avremmo avuto una legge sindacale, una definizione di sindacato, un'indicazione su come stipulare un contratto collettivo che poi deve essere valido per tutta la categoria ed un'indicazione su quali dovevano essere le regole dello sciopero. Agli articoli 39 e 40 della Costituzione sono stati attuati solo in parte. Tutta la parte di regolamentazione auspicata da questi articoli è rimasta sulla carta: tutte le volte che il legislatore ha inteso proporre una soluzione per qualche problema, diversa da quella prevista, la Corte costituzionale la ha dichiarata illegittima.
Il nostro sistema nel suo sviluppo ha intrapreso un'altra via, quella dell'informalità. Ci sono solo frammenti di disciplina: eteronomia è tutto quello che deriva dalla legge, una fonte è autonoma quando proviene dagli stessi soggetti che sono i destinatari.
Quindi informale, autonomo, privato e materiale perchè c'è stato un forte sviluppo della Costituzione materiale che si è allontanata da quella formale, perchè se quella formale è rimasta inattuata, di fatto con l'aiuto dei giudici e della dottrina a poco a poco si sono creati quei principi quei criteri che messi insieme, sono chiamati nella nostra materia, Costituzione materiale.
Il nostro diritto sindacale è caratterizzato dall'effettività: è effettivo perchè visto che non c'è la regola eteronoma e si forma sulla base di quello che decidono di fare i sindacati, la norma è tratta dall'effettività, cioè una sanzione dell'esistente.
Non c'è una definizione di sindacato, per cui qualsiasi gruppo di lavoratori che si organizzi dandosi degli scopi di tutela di interessi scaturenti dal rapporto di lavoro, può dirsi sindacato. La legge non dice ai datori quali sindacati possono essere controparte ed i datori hanno interesse a trattare con i sindacati rappresentativi; non essendoci una regola si parla di reciproco riconoscimento. Per evitare di trattare con chi ha una rappresentatività minima e per scongiurare il rischio di stipulare una contratto che produrrà effetti verso pochissimi, si segue la regola del fatto, della forza, del rapporto di forza. Perchè all'informalità ed alla materialità del nostro diritto sindacale è collegato il rapporto di forza: il sindacato che ha il più alto numero di iscritti, che riesce ad imporsi alla controparte sarà ricercato e rappresentativo. Rapporto di forza, l'autonomia delle nostre relazioni industriali.
Il diritto sindacale: oggetto e fonti.[]
Diritto del lavoro e diritto sindacale.[]
Il diritto del lavoro ha come oggetto il lavoro, non nel senso generico ed omnicomprensivo di cui all'articolo 1 della Costituzione, di impiego assunto e svolto personalmente; ma nel senso particolare di lavoro subordinato, prestato
mediante retribuzione alle dipendenze e sotto la direzione dell'imprenditore.
Come tale trova il suo contrario nel lavoro autonomo, opera o servizio compiuto
verso un corrispettivo con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente
anche se il confine tra l'uno e l'altro resta incerto a livello definitorio e spesso violato a livello pratico.
Se pur ricondotto al diritto del lavoro in senso lato, costituisce un settore scientificamente e didatticamente distinto il diritto della previdenza sociale, sia per la sua complessità, sia per la sua evoluzione da un sistema riservato solo al lavoratore subordinato, secondo un criterio assicurativo, ad uno aperto al cittadino in quanto tale, secondo un principio universalistico.
La tripartizione originaria del diritto sindacale era data da organizzazione sindacale/contrattazione/autotutela collettiva, che scontava quella relativa autosufficienza del diritto sindacale resa possibile dalla mancata attuazione degli articoli 39 e 40 della Costituzione.
Secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale, l'articolo 39 comma 1 sancisce la libertà di organizzazione sindacale per entrambi, datori di lavoro e lavoratori, fermo restando più di una differenza: storica, per essere stati i lavoratori a coalizzarsi, mentre i datori lo hanno fatto solo di risposta, procedendo ad accordi relativi al controllo dei mercati delle loro merci; pratica, per essere i lavoratori soggetti collettivi solo se considerati come gruppi, mentre i datori lo sono anche individualmente rispetto ai loro dipendenti.
All'iniziale lunga astensione legislativa è seguita quella normativa promozionale senza regolamentazione, giustificata dal ruolo giocato dalle tre grandi Confederazioni, che, aperta dallo Statuto dei lavoratori del 1970, col diritto riconosciuto al sindacato maggiormente rappresentativo di costituire RSA, sarà continuata dalla legislazione sulla contrattazione delegata. Da qui la rilevanza acquisita dall'interazione fra Stato e confederazioni, che sfocerà all'inizio degli anni '80 in quella lunga, tormentata e discontinua stagione all'insegna della concertazione.
La mancata emanazione della legge sindacale prevista dall'articolo 39 comma 2 della Costituzione ha lasciato campo libero all'autoregolamentazione delle parti sociali basata sul principio del pubblico riconoscimento culminato nell'accordo interconfederale unitario del luglio 1993. Tutto questo vale per il diritto sindacale del lavoro privato, non per il diritto sindacale dell'impiego pubblico privatizzato, dove prevale l'eteroregolamentazione legislativa.
La disciplina del diritto di sciopero è rimasta consegnata ad una giurisprudenza costituzionale ed ordinaria che già nel corso degli anni '70 lo aveva restituito ad una pienezza di esercizio priva di riscontro nell'intero mondo occidentale. Fino al 1990, quando appare una legge limitata all'esercizio del diritto nei servizi pubblici essenziali.
Il diritto sindacale si interessa inevitabilmente del quadro istituzionale, politico, sindacale, economico, sociale che fa sfondo al suo processo evolutivo, ma secondo l'orientamento classico condiviso, mantenendolo molto sullo sfondo. Deve darsi atto che sta emergendo qualche altro orientamento, il quale privilegia un approccio dichiaratamente economico per spiegare non come un certo diritto è nato, ma come viene usato.
Le fonti del diritto sindacale.[]
La mancata emanazione della legge sindacale veniva giustificata in base alla presunta primazia del 1° comma dell'articolo 39 della Costituzione, la cui assoluta ed incondizionata consacrazione della libertà di organizzazione sindacale sarebbe risultata del tutto incompatibile con la disciplina eteronoma prefigurata dal comma 2.
Ne rappresenta l'espressione più spinta e sofisticata quella teoria dell'ordinamento intersindacale elaborata all'inizio degli anni '60 da un giurista destinato ad esercitare un forte influsso sul processo formativo del diritto del lavoro costituzionale, come studioso e come legislatore. Gino Giugni configura un ordinamento intersindacale, basato sul reciproco riconoscimento delle organizzazioni dei datori e dei lavoratori, come la sua fonte legislativa data dai contratti, la sua giurisdizione dalle procedure di conciliazione, la sua effettività dalle forme di lotta. Esso vive dentro all'ordinamento statale, ma rimane distinto ed autonomo, non senza un canale di comunicazione, costituito dai giudici dello Stato, che nel recepire nelle loro sentenze le norme collettive, le trasformerebbero in norme statali.
Un ordinamento intersindacale così concepito poteva essere distinto ed autonomo solo fino ad un certo punto, perchè non originario, ma derivato e legittimato da quello statale. Se ne è valorizzato l'intento metodologico. Non senza una significativa ricaduta, se pur più nella dottrina che nella giurisprudenza; ma tale teoria, figlia della stagione dell'astensione legislativa, era destinata a divenire superata in quella nuova della legislazione promozionale aperta dallo Statuto dei lavoratori di cui lo stesso Giugni fu definito addirittura il padre.
Le fonti del diritto del lavoro sono quelle del diritto in generale. è consuetudine considerare come fonte tutt'affatto peculiare del diritto del lavoro quella contrattazione collettiva la cui analisi rappresenta la componente più corposa e significativa del diritto sindacale.
Le fonti internazionali.[]
Le fonti internazionali trovano la loro legittimazione costituzionale nell'articolo 11 della Costituzione, che
consente, in condizione di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.
L'esigenza di un'organizzazione interstatuale in materia di lavoro ha portato nella nuova stagione di cooperazione pacifica apertasi alla fine della prima guerra mondiale alla costituzione, nel Trattato di Versailles del 1919, dell'Organizzazione Internazionale del lavoro, con sede a Ginevra, dotata di una competenza assai ampia almeno sulla carta: di indirizzo, regolamentazione, assistenza tecnica, con la precisa finalità di contribuire al miglioramento delle condizioni lavorative e sociali, nonchè allo sviluppo di un ordine economico-sociale mondiale.
Ha una struttura tripartita. composta da rappresentanti degli Stati membri, fra cui tutti i principali e delle loro organizzazioni dei datori e dei lavoratori, e dotata di una Conferenza internazionale del lavoro, di un Consiglio di Amministrazione e di un Ufficio internazionale del lavoro, che costituisce il segretariato permanente. La competenza regolativa è riservata alla Conferenza intenrazionale, che la svolge tramite le convenzioni e le raccomandazioni.
La convenzione è un trattato che, una volta deliberato, ogni paese membrp deve sottoporre all'organo competente per la ratifica, che lo incorporerà nel diritto interno, con conseguente obbligo di farlo applicare e di accettare controlli internazionali. La convenzione si limita spesso all'enunciazione di principi ed alla fissazione di criteri, che possono ben essere universalmente accettati per i loro caratteri generali e generici, per di più redatti in termini compromissori non facilmente interpretabili dalla stessa Corte internazionale di giustizia, con sede all'Aja, competente in materia.
La raccomandazione è una direttiva che ciascun paese membro deve tenere presente nell'elaborazione e gestione delle politiche del lavoro.
La prospettiva classica di autoregolamentazione volontaria dell'OIL è stata messa in crisi da una internazionalizzazione finanziaria ed economica sfociata in una globalizzazione a tutto campo. Il che si è riflesso particolarmente sui diritti più fortemente caratterizzati in senso nazionale. L'assenza di standard internazionali di diritti collettivi ed individuali, che siano sufficienti ed effettivi, favorisce una competizione al ribasso, dumping sociale.
Il Consiglio d'Europa è un'organizzazione internazionale, costituita nel 1949, con sede a Strasburgo, per promuovere la democrazia, i diritti dell'uomo e l'identità culturale europea. Nel 1950 ha dato vita alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, la quale ha istituito, nel 1959, la Corte Europea dei diritti dell'uomo con sede a Strasburgo, che giudica sui ricorsi relativi alle violazioni della Convenzione, inoltrabili solo dopo aver esaurito i rimedi interni. Lo stesso Consiglio d'Europa nel 1961 ha adottato la Carta sociale europea, che menziona diversi diritti in materia di lavoro, in parte coincidente con quelli recepiti dalla Carta dei diritti fondamentali delll'Unione europea, Carta di Nizza.
Le fonti dell'Unione.[]
Arenatosi il procedimento di ratifica del Trattato costituzionale firmato nel 2004, il compromesso raggiunto è stato quello di un Trattato di Riforma dei precedenti Trattati: il Trattato di Lisbona, firmato nel 2007 ed entrato in vigore nel 2009 ha rivisto sia il Trattato istitutivo della Comunità economica europea del 1957 e successive modifiche, cambiandogli la denominazione in Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, sia il Trattato di Maastricht del 1992 e successive variazioni, che riformava la CEE, d'allora in poi Comunità europea, ed istituiva l'Unione europea del 1992.
La UE è un'organizzazione internazionale che, secondo la Corte di Giustizia dell'Unione europea, dà vita ad un unico ordinamento, costituito dal diritto dell'UE e dal diritto dei singoli Paesi membri, con il primato del primo sul secondo. La Corte costituzionale italiana ritiene che permanga la presenza distinta di due ordinamenti, comunitario ed italiano, se pur condividendo l'esistenza del primato.
Costituita dai Trattati di Roma del 1957, come Comunità economicca europea, essa conoscerà una lunga evoluzione che avrà una prima ricaduta sulla sua stessa fisionomia istituzionale, cambiandola da organizzazione intergovernativa in organizzazione internazionale.
La sua finalità principale rimane il mercato interno europeo, finalizzato ad uno sviluppo sostenibile, peraltro basato, oltre che su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, anche su un'economia sociale altamente competitiva.
Le fonti comunitarie si dividono in primarie e derivate: le prime comprendono attualmente i Trattati TFUE e TUE, immediatamente e direttamente efficaci rispetto ai diritti dei paesi terzi, nonchè sovraordinati rispetto alle altre fonti della UE; mentre le seconde sono costituite dagli atti normativi fondati sui trattati ed emanati dalle istituzioni, cioè in primis i regolamenti e le direttive. Sono fonti di diritto la giurisprudenza della Corte di Giustizia ed i principi generali di diritto.
Sono qualificati come istituzioni dell'UE il Parlamento, composto dai rappresentanti dei cittadini dell'Unione; il Consiglio europeo ed il Consiglio, costituito il primo dai capi di Stati e di Governo ed il secondo di regola dai ministri competenti per i singoli argomenti trattati; la Commissione, formata da persone designate dai singoli paesi, ma destinate ad esercitare le loro funzioni in piena indipendenza nell'interesse generale della Comunità, la Corte di Giustizia dell'Unione, la Corte dei Conti, la Banca centrale europea; nonchè i neo introdotti Presidente del Consiglio europeo e l'Alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e per la politica della sicurezza.
La Corte di Giustizia con sede in Lussemburgo ha come sua funzione quella di garantire l'applicazione uniforme del diritto dell'UE in tutti i paesi membri: le spetta decidere su vari tipi di ricorsi, fra cui quello per rinvio pregiudiziale da parte dei giudici nazionali circa la validità e l'interpretazione delle norme dell'UE; e quello per inadempimento degli Stati al diritto dell'UE.
La giurisprudenza della Corte è stata di eccezionale importanza nella stessa costruzione del diritto dell'UE, con una significativa ricaduta indiretta su quella stessa materia sindacale esclusa dalla competenza dell'UE, come risulta dalle sentenze Laval e Viking Line che limitano la possibilità di ricorrere allo sciopero a pro della libertà di stabilimento e della libera prestazione dei servizi.
Le competenze della UE sono rette dal principio di attribuzione, cioè sono quelle conferitele dagli Stati membri coi Trattatti istitutivi in funzione delle finalità da perseguire, non senza una loro possibile dilatazione implicita in base alla clausola di flessibilità.
Fra le fonti primarie c'è la Carta di Nizza che elenca tutta una serie di diritti relativi alla dignità, libertà, uguaglianza, solidarietà, cittadinanza, giustizia. Alla Carta il Trattato di Lisbona ha riconosciuto lo stesso valore giuridico dei Trattati, con un atto dal grande valore simbolico, ma dal significato problematico: secondo il suo articolo 52 occorre distinguere fra principi da attuarsi con atti dell'UE e degli Stati membri; prendere atto del fatto che l'UE non ha competenza in materia di associazione, di sciopero e di serrata. La Corte di giustizia, con due sentenze del 2007, riconoscerà il diritto di azione sindacale di cui all'articolo 28 della Carta come un diritto fondamentale dell'UE.
I regolamenti possono essere adotti dal Consiglio; dal Consiglio e dal Parlamento congiuntamente; dalla Commissione, dalla Banca centrale europea. Sono atti generali obbligatori nei confronti degli Stati membri e dei privati, con effetti giuridici che prevalgono su tutti gli ordinamenti giuridici nazionali in termini simultanei, automatici ed uniformi.
Le direttive sono presentate dalla Commissione al Consiglio ed al Parlamento europeo che le adottano; ed una volta entrate in vigore, impegnano gli Stati membri a recepirle, entro un termine da sei mesi a due anni, scaduto il quale possono essere citati della Commissione di fronte alla Corte di Giustizia, per inadempimento degli obblighi comunitari. Normalmente pongono solo un vincolo di risultato, lasciando agli Stati ampi margini di manovra circa gli atti con cui realizzarlo. Se non recepite o recepite in ritardo od in modo incompleto le direttive spiegano un'efficacia verticale, fra Stati e privati, che, semprechè contengano disposizioni chiare, precise, incondizionate, possono farle valere in giudizio per ottenere il risarcimento dei danni subiti. Sono prive dell'efficacia orizzontale, fra privati, tranne nel caso in cui si tratti di direttive dettagliate, dette self-executing, che pur non attuate possono acquisire rilevanza nell'ordinamento grazie all'obbligo di interpretazione conforme posto in capo ai giudici nazionali.
Le direttive sono state la strumentazione elettiva di quella politica regolativa tesa all'armonizzazione delle discipline nazionali vigenti nelle varie materie rientranti fra le competenze della comunità che è venuta col tempo a mostrare la corda.
La recezione delle direttive potrebbe avvenire anche per tramite dalla contrattazione collettiva dello Stato membro, purchè questa sia in grado di assicurare un'efficacia erga omens. Cosa impossibile per l'Italia, per la perdurante mancata attuazione dell'articolo 39 comma 2 e seguenti della Costituzione, nonostante l'aspettativa sindacale espressa nel Patto di Natale del 1998 che sottoponeva a concertazione anche la trasposizione delle direttive comuntarie e la tendenza di una certa dottrina a considerare tale contrattazione estranea nell'ambito coperto dall'articolo costituzionale.
Si è discusso se per la recezione delle direttive avessero valore un principio generale implicito o clausole esplicite contenutevi di non regresso. Esclusa l'esistenza del principio, anche l'efficacia delle clausole è stata considerata dalla Corte di Giustizia più politica che giuridica, rimessa ad un'ampia discrezionalità del legislatore del paese membro.
La conquista della dimensione sociale è stata lenta e faticosa, nonchè appesantita da una qual certa ambiguità circa la sua rilevanza, non in sè ma in funzione di una concorrenza genuina e di mobilità effettiva delle persone. Fondamentale è stato l'Accordo sulla politica sociale che ha ampliato la competenza in materia sociale ed ha dato inizio ad una particolare procedura definita esplicitamente dialogo sociale.
Oggi l'espressione dialogo sociale europeo indica un'ampia gamma di relazioni intercorrenti sia trilaterali fra le istituzioni UE e le parti sociali, sia bilateriali fra le stesse.
La Commissione ha il compito di promuovere la consultazione delle parti sociali a livello di Unione ed adotta ogni misura utile per facilitare il dialogo provvedendo ad un sostegno equilibrato delle parti: tale compito diventa un obbligo qualora essa intenda presentare proposte legislative in tema di politiche sociali.
La consultazione può sfociare nella conclusione di un contratto collettivo europeo di due tipi, battezzati con nomi diversi, ma che qui vengono riferiti come accordo quadro ed accordo libero. Il primo è lo strumento di un coinvolgimento sindacale nel processo legislativo europeo: una volta di un coinvolgimento sindacale nel processo legislativo europeo: una volta raggiunto l'accordo su una materia rientrante fra le competenze dell'UE, dietro proposta congiunta delle parti e su proposta della Commissione, il Consiglio lo assume come atto normativo dell'UE. Il secondo è avulso dal processo normativo dell'UE, sicchè può riguardare anche una materia estranea alle competenze dell'UE, restando un mero accordo a carattere politico-orientativo, rimesso per la sua attuazione alle procedure e le prassi proprie degli Stati membri.
Il Trattato di Amsterdam del 1997 pone la premessa per un'espansione della politica legislativa regolativa; precostituisce al tempo stesso la base per quella politica cooperativa, realizzata fra istituzioni e Stati membri, sulla base di orientamenti, formulati dal Consiglio. Decolla così la Strategia europea per l'occupazione, che, poi nel 2000, diventerà la Strategia di Lisbona, con
un nuovo obiettivo strategico per il nuovo decennio: diventare l'economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro ed una maggiore coesione sociale.
La contrattazione collettiva europea sconta una duplice difficoltà: di diritto, per l'inesistenza di un vero e proprio diritto sindacale europeo, perchè manca qualsiasi armonizzazione delle stesse nozioni di base; di fatto, perchè nel vuoto legislativo, sono stati individuati tre attori principali, la Confederazione europea dei sindacati, l'Unione delle industrie della Comunità europea ed il Centro europeo delle imprese pubbliche, che hanno sì giocato un ruolo fondamental nel dialogo sociale, ma restano a tutt'oggi privi di poteri di rappresentanza a pieno titolo loro conferiti dalle organizzazioni sindacali nazionali.
La causa determinante dell'entrata in crisi della contrattazione collettiva europea è stata la vista forte diminuzione dell'iniziativa regolativa della Commissione.
Anche la scommessa fatta con la politica cooperativa si è rivelata perdente. Sotto l'incalzare di una crisi mondiale, che penalizza l'Europa in particolare, è emersa in tutta la sua drammaticità la conseguenza di un'espansione incontrollata dell'UE.
L'Unione europea è in mezzo ad un guado investito da un'impetuosa corrente: o vince la corrente facendo un salto in avanti verso una più stretta ed integrata forma di organizzazione; o la corrente vincerà lei, causandone la dissoluzione.
La Costituzione.[]
La nostra è una Costituzione lunga, che fa precedere un Preambolo sui principi ed una Parte prima, sui diritti e doveri dei cittadini, alla Parte seconda sull'ordinamento della Repubblica: caratteristica prodotta da una generale evoluzione della tipica Carta fondamentale liberale dell'800.
Con un'ulteriore caratteristica propria di una costituzione moderna, la nostra Costituzione è rigida, cioè sovraordinata, lei e le leggi approvate con l'apposita procedura rinforzata, alle leggi ordinarie. Cosa che comporta l'esistenza di una Corte costituzionale, chiamata a decidere della legittimità delle leggi ordinarie, nonchè a risolvere i conflitti di attribuzione fra i poteri della Repubblica.
Bisogna arrivare al Titolo III della Parte Prima, sui rapporti economici, per ritrovare il diritto sindacale prefigurato nella nostra Carta fondamentale. Aperto da quell'articolo 35, che impegna la Repubblica alla tutela del lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni, continua con gli articoli 36, 37, 38, in materia di diritti dei singoli lavoratori subordinati, per approdare agli articoli 39 e 40. Il modello che ne può essere deotto è stato battezzato di pluralismo istituzionalizzato, perchè se l'articolo 39 comma 1 garantisce la libertà di organizzazione sindacale e l'articolo 40 riconosce il diritto di sciopero, questo deve avvenire nell'ambito di un sistema di regole quali previste dall'articolo 39 comma 2 e seguenti e dallo stesso articolo 40.
L'articolo 39 comma 2 e seguenti cerca di conciliare il riconoscimento del pluralismo sindacale proprio del nuovo regime democratico col mantenimento del contratto di categoria efficace erga omnes caratteristico del sistema corporativo. Ogni organizzazione sindacale dei datori e dei lavoratori con uno statuto a base democratica deve o può chiedere la registrazione, con conseguente acquisizione della personalità giuridica; una volta registrata ha titolo per partecipare in proporzione dei propri iscritti alla rappresentanza unitaria di parte lavoratrice e di parte datoriale per la stipulazione di contratti efficaci per tutti gli appartenenti alle categorie cui si riferisce.
L'articolo 40 rappresenta la soluzione di continuità più radicale rispetto alla situazione precedente: consacra come diritto quello di sciopero che era represso come reato dal codice penale del 1930. Usa al riguardo una formula anodina, quella per cui
il diritto di sciopero si esercita nell'ambito delle leggi che lo regolano
con un sostanziale rinvio aperto al futuro legislatore.
Questo sistema non ha mai visto la luce per l'articolo 39 comma 3 e seguenti, rimasto scritto nella Costituzione, con la conseguenza di impedire qualsiasi sostanziale alternativa a quella ivi prevista per conferire alla contrattazione collettiva efficacia erga omens; e l'ha vista solo parzialmente e tardivamente per l'articolo 40 della Costituzione, con l'emanazione del 1990 della legge sull'esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali.[]
Il modello previsto si collocava nell'ambito di un riconoscimento dell'iniziativa economica privata, significativamente effettuato subito dopo con l'articolo 41, peraltro accompagnato dall'esplicito divieto a
svolgersi in contrasto con l'utilità sociale od in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà ed alla dignità umana
nonchè dal rinvio alla legge per delineare
i programmi ed i controlli opportuni perchè l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.
Un eco del pensiero socialista lo si ritrova, oltre che nell'articolo 3 comma 3, ma anche negli articoli 43 e 46. Il primo legittima non solo la socializzazione effettivamente realizzata; ma anche la socializzazione di imprese che formano servizi pubblici essenziali, gestiscono fonti di energia, operano in situazioni di monopolio rimasta sulla carta. Il secondo contempla il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende, secondo una formula ispirata da un'esperienza post bellica rivoluzionaria, ma, nella sua versione anodina, tale da sottolineare una convergenza fra interessi dei datori e dei lavoratori, rimasta ostica all'esperienza sindacale italiana.
La legge e gli usi.[]
Se fino all'attuazione dell'ordinamento regionale previsto dal vecchio Titolo V della Parte seconda della Costituzione, avvenuto negli anni '70, si avevano solo leggi nazionali, dopo se ne avranno anche regionali. Con la riscrittura del Titolo V effettuata dalla Legge costituzionale numero 3/2001, la ripartizione della competenza fra Stato e regioni è stata radicalmente modificata, col prevederne un novellato articolo 117 un'esclusiva a favore dello Stato, una concorrente Stato-regione ed una residuale generale tutta regionale.
Per le grandi riforme che investono direttamente od indirettamente la materia sindacale l'alternativa fra legge e legge delega sembra consegnata ad una valutazione che privilegia rispetto alla complessità e delicatezza della materia, la peculiare congiuntura politica e parlamentare: così sono leggi lo Statuto dei lavoratori, il Pacchetto Treu, la riforma Fornero; mentre sono leggi delega, con conseguente decretazione delegata, quelle relative alla privatizzazione dell'impiego pubblico e la riforma Biagi. In presenza di una continua fibrillazione della maggioranza parlamentare che si è alternata in questa seconda Repubblica s'è fatta regola quella destinata a restare eccezione ai sensi di una Costituzione come la nostra, nonchè alla fiducia anche nella delicata materia del lavoro; se pure il decreto legge più famoso e rilevante nella nostra storia del diritto sindacale resti il Decreto Legge numero 70/1984 varato dal Governo allora presieduto da Bettino Craxi, sul contenimento del costo del lavoro, sopravvissuto sia ad una consultazione refendaria, sia ad una sentenza della Corte costituzionale.
L'aspettativa della legge sindacale attuativa dell'articolo 39 comma 2 e seguenti della Costituzione resterà relativamente alta fino alla fine degli anni '50, quando fu emanata la Legge numero 741/1959, che autorizzava il Governo a recepire in decreti delegati i contratti collettivi già stipulati la definitiva condanna della legge sindacale di attuazione sarà data dall'emanazione della Legge numero 300/1970, lo Statuto dei lavoratori, che varerà una politica promozionale selettiva, consistente nel garantire la cittadinanza nei luoghi di lavoro in primis alle organizzazioni sindacali maggiormente raèèresentative.
Tale politica promozionale si espanderà successivamente alla stessa negoziazione. Di questa contrattazione costituisce l'esemplificazione più importante e significativa la Legge numero 146/1990, come modificata dalla Legge numero 83/2000, che inquadra in una cornice legislativa la stipula dei contratti e degli accordi, destinati ad individuare e disciplinare le prestazioni indispensabili da assicurare nel corso di scioperi effettuati nei servizi pubblici essenziali.
Nel corso degli anni '90 prende corpo la privatizzazione dell'impiego pubblico, con il varo di quel Decreto legislativo numero 29/1993, che, dopo un lungo e tormentato percorso, approderà nel testo unico sul pubblico impiego, il Decreto legislativo numero 165/2001, destinato a sua volta ad essere modificato fino ai nostri giorni. Emerge un diritto sindacale dell'impiego pubblico privatizzato che, per quanto ricalcato alla lontana da quello del lavoro privato, ne rimane assai differente.
Gli usi aziendali sono oggi inquadrati dall'indirizzo dominante fra le fonti sociali collettive, fra cui rientrerebbero anche i contratti collettivi aziendali ed i regolamenti d'azienda.
La contrattazione collettiva.[]
Resta aperta la discussione sul se la contrattazione collettiva possa essere qualificata fonte del diritto: mentre la tesi favorevole gode di largo credito fra gli studiosi di diritto pubblico, quella contraria, prevale nettamente fra gli studiosi ed i giudici del lavoro.
Nel perdurante vuoto attiativo dell'articolo 39 comma 2 e seguenti, si è andato consolidando un indirizzo giù manifestatosi a ridosso del varo del testo costituzionale, di far ricorso al contratto collettivo di diritto comune: escluso di poterlo omologare al contratto corporativo regolato dal codice civile in apertura del titolo V, veniva ricondotto sotto il regime comune dei contratti e delle obbligazioni di cui al libro IV.
Un tale regime non permetteva di soddisfare lo scopo storico del contratto collettivo di creare un trattamento comune esteso a tutti i lavoratori capaci di farsi concorrenza al ribasso nello stesso ambito produttivo o territoriale; ma lasciava spazio libero ad un regolamento autonomo del sistema contrattuale tramite appositi accordi interconfederali e le prime parti dei contratti collettivi di categoria, battezzate come obbligatorie perchè destinate a regolare le relazioni collettive fra le stesse organizzazioni stipulanti. La contrattazione articolata, costruita su una serie di rinvii dal contratto nazionale a quelli decentrati per la regolamentazione di determinate materie, venne introdotta nel 1962 dal Protocollo Intersid/Asap, per poi divenire recepita come formula generale destinata a sopravvivere alla stessa stagione della conflittualità permanente, aperta dall'autunno caldo del 1969, tanto che la ritroviamo in quell'autentica carta fondamentale delle relazioni collettive costituita dal Protocollo del luglio del 1993 fra Governo e Confindustria, Cgil, Cisl, Uil rectius dall'accordo interconfederale in esso incorporato.
Gli accordi interconfederali conclusi fra le parti sociali hanno conosciuto una particolare fortuna, quando sono stati incorporati in Protocolli triangolari di una concertazione attuata come uno scambio politico fra il Governo e le stesse parti sociali, a partore dall'inizio degli anni '80 e per tutti gli anni '90. Alla crisi della concertazione ha corrisposto la conclusione di accordi interconfederali con la partecipazione delle sole parti sociali.
La contrattazione collettiva è subordinata alla legge, con la salvaguardia di quella competenza orizzontale, che secondo la Corte costituzionale le resterebbe pur sempre garantita ai sensi dell'articolo 39 comma 1.
Laddove la legge interviene in materia sindacale fissa solo la disciplina minimale che può essere migliorata dalla contrattazione collettiva; ma la legislazione assai poco è servente rispetto all'autonomia collettiva, sostanzialmente secondo modalità diverse: la recezione in atti legislativi di precedenti accordi sindacali; la delega a successivi contratti collettivi di compiti suppletivi, integrativi e modificativi rispetto a quanto da lei stessa disposto.
Bisogna tenere distinte due ipotesi. Nella prima, c'è una sostanziale ricezione di precedenti accordi interconfederali. Nella seconda c'è una trattativa preliminare, che col tempo si è ampliata in una concertazione finalizzata alla stesura di un Protocollo, propedeutico ad interventi del Governo ed a provvedimenti legislativi a tutto campo.
La Legge numero 146/1990 sull'esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali, prevede una disciplina composita con la legge ad individuare i servizi, a fissare alcuni limiti, a definire i moduli tipici con cui possono essere assicurate le prestazioni indispensabili; ed i contratti collettivi e gli accordi di comparto e di area dirigenziale a regolamentare siffatte prestazioni, efficaci rispetto a tutti i potenziali destinatari solo se validati dall'apposita Commissione di Garanzia.
Stando alla Corte costituzionale, sarebbe proprio la legge a conferire ai contratti collettivi del settore pubblico privatizzato efficacia generalizzata, per via di quell'articolo 40 comma 4 del Decreto legislativo numero 165/2001 che impone a tutte le pubbliche amministrazioni di osservarli.
Se continua massiccia la legislazione a favore della contrattazione delegata, resta tutta la difficoltà politico-sindacale di intervenire direttamente sulla contrattazione collettiva. Sarà la rottura sindacale sul rinnovo del Protocollo del luglio 1993 ad offrire l'occasione per quell'articolo 8 del Decreto Legge numero 138/2001, convertito con Legge numero 148/2011, che, appena varato, è stato disconosciuto pubblicamente dalle parti sociali.
L'articolo 4 commi 62 e 63 della Legge 92/2012, conferisce al Governo la delega per l'emanazione di decreti che autorizzino la contrattazione collettiva ad introdurre varie forme di partecipazione. Questo secondo un crescendo che procede ben oltre l'informazione e consultazione dei lavoratori di cui alla Direttiva UE numero 14/2002, recepita col Decreto Legislativo 25/2007, fino a riecheggiare la codeterminazione tedesca, con la presenza di rappresentanti dei lavoratori nei Consigli di sorveglianza delle Società organizzate secondo la formula dualistica, nonchè la partecipazione azionaria degli stessi lavoratori.
La giurisprudenza.[]
Fondamentale nella formazione di un diritto sindacale difforme dal modello prefigurato dalla carta è stata l'attività svolta dalla Cata costituzionale, con riguardo all'articolo 39 della Costituzione. Di questo ha valorizzato appieno la libertà di organizzazione sindacale inscritta nel comma 1, senza ritenerla nè esclusiva della politica promozionale selettiva di cui al Titolo III dello Statuto dei lavoratori, nè preclusiva della legislazione sul costo del lavoro. Ha mantenuto fermo il comma 2 e seguenti, senza considerarlo impeditivo dell'effetto generalizzato riconosciuto ai regolamenti contrattuali circa le prestazioni indispensabili ex Legge numero 146/1990 sull'esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali, nonchè ai contratti collettivi del pubblico impiego privatizzato ex Decreto Legislativo numero 165/2001.
Non meno importante è stato l'apporto della Corte a proposito del riconoscimento del diritto di sciopero di cui all'articolo 40, dato con l'esercizio del suo sindacato sugli articoli 502 e seguenti e 330 del codice penale del 330, formalmente sopravvissuti al crollo del fascismo. Ne è riuscito ampliato progressivamente lo scopo legittimamente perseguibile, non più solo contrattuale, ma anche politico-economico; e ne è risultato ammesso lo stesso sciopero nei servizi pubblici essenziali.
Altrettanto fondamentale è risultata l'azione della magistratura ordinaria: non di quella penale, ma di quella civile, che, a seguito della riforma del 1973, conta su una sezione e su un processo dedicati alle controversie di lavoro.
La giurisprudenza si è formata e consolidata gradualmente, con una dialettica fra il primo grado, il secondo di merito ed il terzo di legittimità. Ogni giudicato vale solo ed esclusivamente per il caso specificato considerato, ma contribuisce a formare l'indirizzo consolidato che viene a costituire il diritto vivente. Tale diritto vivente è quello proprio dalla Corte di Cassazione, specie se a Sezioni unite, la quale si è vista di recente rafforzare la sua funzione nomofilattica, con la previsione di un ricorso per violazione e falsa applicazione non più solo di norme di diritto, ma anche ei contratti ed accordi collettivi nazionali di lavoro, nonchè con l'introduzione del ricorso per saltum, cioè evitando il secondo grado contro una sentenza di primo grado sull'accertamento pregiudiziale sull'efficacia, validità ed interpretazione dei contratti collettivi.
L'ultimo quindicennio è caratterizzato da una sequenza ininterrotta di riforme del mercato, alla ricerca di quella flessibilità ritenuta necessaria per far fronte ad una cronica crisi occupazionale. Il protagonismo dei giudici del lavoro ha raggiunto il suo culmine nel corso dei primi anni '70, con l'utilizzo a tutto campo dell'articolo 28 dello Statuto dei lavoratori, da parte dei Pretori d'assalto, che per età e formazione erano particolarmente influenzati dal clima conflittuale del tempo. Col cambio di clima conseguente al processo di ristrutturazione attivato in Italia dall'effetto congiurato della crisi petrolifera del 1973 e della protesta operaia, che comporta una ridistribuzione di potere a favore della parte datoriale vis-à-vis di quella lavoratrice nonchè una centralizzazione delle relazioni collettive, tale protagonismo si attenua.
Il ruolo riservato al giudice amministrativo risulta ridimensionamento rispetto a quello del lavoro.
Il contratto collettivo nel lavoro privato.[]
La problematica del contratto collettivo di diritto comune.[]
Nel settore privato attori e procedure della contrattazione collettiva sono scarsamente istituzionalizzati, nel senso che la materia è governata da prassi e rapporti di forza.
Sono rinvenibili almeno quattro tipi di contratto collettivo: quello corporativo, quello di diritto comune, quello prefigurato dal legislatore costituente nei commi 2, 3 e 4 dell'articolo 39 che non ha trovato attuazione, e quello recepito in decreto legislativo ai sensi della Legge numero 741/1959.
L'unico ancora oggi vitale è il contratto collettivo di diritto comune.
Il contratto corporativo era un contratto tipico, elevato al rango di fonte del diritto in senso proprio, sia pure gerarchicamente subordinata alle leggi ed ai regolamenti. Contratto tipico in quanto oggetto di una specifica disciplina legale: gli articoli 2068 - 2081 del codice civile disponevano in ordine ai soggetti, al contenuto, alla durata, ai destinatari, all'efficacia.
La soppressione dell'ordinamento corporativo e delle organizzazioni sindacali fasciste coinvolse i contratti corporativi e la loro disciplina legale.
Il legislatore post-corporativo non detta, tuttavia, una disciplina tipica del contratto collettivo, sostitutiva di quella corporativa. Non lo fa prima del 1° gennaio 1948, in attesa delle scelte costituzionali. Non lo fa dopo, giacchè una legislazione sul contratto collettivo non potrebbe che essere una legislazione di attuazione dell'articolo 39 della Costituzione, e tale attuazione si rivela impraticabile e non desiderata per le ragioni precedentemente esposte.
Gli operatori giuridici sono costretti a prendere atto che il contratto collettivo stipulato da libere associazioni sindacali è un contratto atipico, sfornito di specifica regolamentazione legale. La giurisprudenza si assume il compito di ricostruire man mano le linee fondamentali della sua disciplina.
Il contratto collettivo di diritto comune finisce per apparire un istituto di origine giurisprudenziale, che viene nelle coordinate tracciate dal codice civile in relazione ad ogni manifestazione di autonomia privata.
Occorre aggiungere, per chiarezza, che le operazioni giurisprudenziali e dottrinali sono state tradizionalmente condotte sui contratti collettivi di categoria, essendo praticata poco e solo in qualche settore la contrattazione a livelli territoriali inferiori.
è utile precisare subito che le categorie cui si riferiscono i singoli contratti collettivi nazionali nella nostra esperienza storica sono prevalentemente espressione di branche di attività economico - produttiva esercitata dai datori di lavori: categorie merceologiche. I CCNL possono essere espressione anche di altri fattori, quasi sempre in combinazione con quello merceologico. Sul versante dei lavoratori può rilevare il loro mestiere. Sul versante dei datori di lavoro, accanto al genere di attività esercitata possono rilevare, ed indurre specifici contratti nazionali, talune caratteristiche datoriali. In assenza di ogni predeterminazione legale degli ambiti categoriali della contrattazione collettiva, ben potrebbero le parti stipulanti delineare diversamente i confini di applicazione del contratto collettivo, accorpando alcune categoria o, viceversa, creando ulteriori e specifiche categorie contrattuali.
Le problematiche del contratto collettivo di diritto comune concernono innanzitutto i rapporti intercorrenti con i contratti individuali di lavoro.
Se si esclude che il contratto collettivo abbia natura di fonte in senso pubblicistico, se cioè si esclude che esso sia caratterizzato da una strutturale sovraordinazione rispetto alle espressioni di autonomia contrattuale individuale di datore e lavoratore, occorre puntualizzare su basi e ricostruzioni privatistiche l'ambito soggettivo di operatività e la capacità del contratto collettivo di imporsi sulle difformi previsioni dei contratti individuali.
I rapporti tra contratti collettivi e contratti individuali di lavoro.[]
L'ambito di efficacia del contratto collettivo nazionale: la regola generale.[]
Nel sistema corporativo i sindacati registrati erano espressione di categorie individuate nel numero e nell'estensione dell'autorità amministrativa ed avevano una rappresentanza di carattere istituzionale degli appartenenti alle categorie stesse:
le associazioni legalmente riconosciute hanno personalità giuridica e rappresentano legalmente tutti i datori di lavoro, lavoratori, artisti e professionisti della categoria per cui sono istituite.
I sindacati registrati si vedevano attribuito dalla legge il potere di stipulare contratti collettivi aventi come destinatari tutti gli appartenenti alle rispettive categorie.
Con la caduta del sistema corporativo le associazioni sindacali divengono libere di individuare l'ambito delle categorie di cui intendono farsi espressione e l'ambito di efficacia del contratto collettivo, ma al tempo stesso perdono il potere di rappresentanza istituzionale di tutti gli appartenenti a tali categorie.
Gli operatori giuridici si vedono costretti a spiegare alla stregua del diritto comune come un contratto stipulato a livello collettivo tra associazioni sindacali possa produrre effetti nella sfera giuridica di altri soggetti, e precisamente del singolo datore di lavoro e del singolo lavoratore, sul piano del rapporto indiciduale di lavoro. Danno soluzione al problema ricorrendo alla figura giuridica della rappresentanza, limitatamente tuttavia all'ipotesi che i singoli appartengono alle associazioni sindacali stipulanti.
La conseguenza è che solo il datore di lavoro iscritto all'organizzazione sindacale dei datori di lavoro è tenuto all'applicazione del contratto collettivo nei confronti dei soli lavoratori sindacalmente associati.
Ulteriore conseguenza è che il datore di lavoro il quale receda dalla propria organizzazione si libera dall'obbligo di applicare i contratti collettivi stipulati successivamente al recesso, restando vincolato fino alla scadenza all'applicazione del contratto collettivo vigente nel momento in cui il recesso si è verificato.
Operazioni giurisprudenziali di estensione dell'ambito di efficacia.[]
Pur restando in linea di principio fedele alla ricostruzione del contratto collettivo di diritto comune secondo il modulo della rappresentanza e la giurisprudenza si è sforzata di dilatarne l'ambito di applicazione, nella consapevolezza della tendenziale vocazione del contratto collettivo ad esprimere una disciplina generale operante per tutti i lavoratori di una determinata categoria; vocazione frustrata dalla mancata applicazione dei commi 2, 3 e 4 dell'articolo 39 dell Costituzione e, dunque, dalla necessitata ricostruzione privatistica della rappresentazione conferita dai singoli associati all'organizzazione sindacale.
Malgrado i numerosi tentativi giurisprudenziali e legislativi di dilatare l'efficacia soggettiva del contratto collettivo, resta valido in via generale il principio dell'efficacia limitata agli iscritti del CCNL, rispetto al quale le ricostruzioni che seguono si pongono quali mere eccezioni.
Il contratto collettivo è ritenuto applicabile, anche in mancanza del requisito dell'scrizione, quando le parti individuali vi abbiano prestato esplicita od implicita adesione.
Il primo caso si verifica normalmente allorchè il contratto individuale rinvia espressamente alla disciplina collettiva come fonte di diritti ed obblighi per le parti individuali.
Si è posto il problema se il rinvio al contratto collettivo contenuto nel contratto individuale sia riferito soltanto al contratto collettivo vigente nel momento storico od anche ai successivi rinnovi contrattuali. La giurisprudenza tende a risolvere il quesito valorizzando caso per caso la specifica volontà dei contraenti, desumibili anche dalle espressioni utilizzate.
Il secondo caso si verifica allorchè il contratto collettivo è di fatto spontaneamente applicato dal datore è di fatto spontaneamente applicato dal datore di lavoro, che vi presta puntuale osservanza a prescindere dalla sua mancata associazione all'organizzazione firmataria del contratto collettivo. Ciò avviene allorchè di esso vengono applicate la maggior parte o le più significative clausole.
La recezione implicita è stata sempre riferita ad un contratto collettivo determinato. Ma teoricamente potrebbe essere ricondotta alla recezione esplicita come manifestazione tacita della volontà di determinazione del contenuto del contratto individuale tramite la fonte collettiva.
Con riguardo alla posizione processuale del lavoratore che invoca l'applicazione del contratto collettivo, la giurisprudenza ha sempre affermato che egli deve fornire la prova dell'iscrizione del datore ovvero della recezione implicita od esplicita del contratto collettivo; ma ha anche aggiunto che tale prova non è necessaria
quando il dibattito fra le parti si sia svolto sul presupposto dell'assoggettabilità del rapporto individuale al contratto collettivo, per adesione alla relativa disciplina o per recezione di questa nel contratto individuale.
La giurisprudenza è pervenuta a ritenere che il datore di lavoro iscritto è tenuto ad applicare il contratto collettivo anche ai lavoratori non iscritti, non potendo impedire che costoro
manifestino la volontà di conforme ad esso il contratto di lavoro individuale.
In quest'ottica può ben comprendersi come almeno per il passato il nodo circa l'ambito di efficacia del contratto collettivo fosse connesso quasi esclusivamente all'associazione o meno del datore di lavoro.
La questione si è posto in termini diversi in presenza dei contratti collettivi in peius. Qui sono i lavoratori non iscritti a sindacati stipulanti a rivendicare la non efficacia nei loro confronti dei trattamenti deteriori.
La giurisprudenza di massima ha condiviso la tesi dell'efficacia soggettiva limitata di tali contratti collettivi nazionali. Solo limitatamente ai contratti collettivi aziendali è intervenuto di recente il legislatore, garantendo a tali contratti un'efficacia nei confronti di tutti i lavoratori della comunità aziendale interessata.
Si ritiene comunemente che i CCNL acquisiscano di fatto un'estensione generale allorquando sia la legge a rinviare ad essi la regolamentazione di alcuni istituti, in chiave modificativa od integrativa.
In tal caso il contratto collettivo resta un atto di autonomia privata concluso tra privati e sottoposto alla disciplina civilistica, ma diviene un elemento della fattispecie legale, acquisendo solo indirettamente efficacia generale, in forza della legge che lo richiama e recepisce.
Un ulteriore, ma meno felice, tentativo di estendere l'efficacia soggettiva del contratto collettivo è compiuto mediante un'operazione di recupero dell'articolo 2070 del codice civile, secondo cui il datore di lavoro deve applicare il contratto corrisponde alla propria attività e, se svolge più attività, distinti contratti qualora queste siano autonome fra loro, ovvero il contratto corrisponde all'attività principale qualora le altre siano accessorie o complementari.
Sul presupposto della sovranità dell'articolo 2070 alla caduta dell'ordinamento corporativo è stato ipotizzato che il datore sia obbligato ad applicare il contratto collettivo corrisponde alla propria attività a tutti i propri dipendenti. La tesi non ha avuto seguito significativo anche perchè la Cassazione ha esplicitamente dichiarato l'incompatibilità tra il principio di libertà sindacale di cui all'articolo 39 comma 1 della Costituzione ed il criterio dell'appartenenza alla categoria imprenditoriale, fissato dall'articolo 2070 del codice civile.
In mancanza di una specifica affiliazione, datore di lavoro e lavoratore possono accordarsi per l'applicazione di un contratto collettivo diverso da quello corrispondente all'attività svolta dal primo.
A partire dalla metà degli anni '50 la giurisprudenza è andata applicando, sia pure indirettamente, i minimi tariffari del contratto collettivo anche ai rapporti di lavoro con imprenditori non iscritti alle organizzazioni stipulanti.
L'orientamento è stato fondato sull'articolo 36 della Costituzione e sull'articolo 2099 del codice civile. L'articolo 36 della Costituzione è stato riconosciuto quale norma precettiva di immediata efficacia anche nei rapporti tra privati, suscettibile quindi di essere utilizzato dal giudice anche indipendentemente da interventi legislativi d'attuazione.
I giudici hanno normalmente utilizzato i minimi tariffari dei contratti collettivi come parametri della conformità alla regola costituzionale del trattamento retributivo fissato dalle parti individuali, giudicando nulle le pattuizioni comportanti un trattamento economico inferiore a quei minimi.
Non è il contratto collettivo ex se a produrre un'efficacia oltre la schiera dell'associazione ai sindacati stipulanti, ma è l'articolo 36 della Costituzione, mediato dall'articolo 2099 del codice civile, a produrre tale effetto, attribuendo al contratto collettivo una funzione meramente parametrica.
Interventi legislativi sull'ambito di efficacia del contratto collettivo nazionale.[]
Alla fine degli anni '40 si sono succeduti vari interventi legislativi, prevalentemente settoriali, volti ad operare in via di eccezione una dilatazione, diretta od indiretta, dell'ambito di applicazione dei contratti collettivi di diritto comune.
Tali interventi dovevano fare i conti con la strettoia costituita dai commi 2, 3 e 4 dell'articolo 39 della Costituzione, secondo cui un contratto collettivo può acquisire un'efficacia erga omnes solo se concluso con la particolare procedura democrativa ivi prevista, peraltro mai predisposta da leggi attuative.
La consacrazione dell'efficacia generalizzata dei contratti collettivi è stata in un primo momento ravvisata in quelle disposizioni che sanciscono l'obbligo del datore di lavoro di osservare le norme dei contratti collettivi e di retribuire il prestatore in conformità alle tariffe in essi contenute. Dottrina e giurisprudenza hanno offerto di queste norme una lettura non in termini di imposizione diretta dell'obbligo in capo ai datori di lavoro non iscritti ai sindacati stipulanti, ma in termini di mera sollecitazione a fare rinvio al contratto collettivo, favorendo nei fatti l'espansione della sua efficacia.
L'intervento più importante è collocabile alla fine degli anni '50 quando il legislatore tentò di condurre diversamente a soluzione definitiva il problema dell'efficacia generale dei contratti collettivi. Con la Legge 14 luglio 1959 numero 741, il Parlamento delegò il Governo ad emanare decreti aventi come contenuto i contratti collettivi stipulati fino alla data di entrata in vigore della legge. E con Legge 1° ottobre 1960 numero 1027, prorogò di 15 mesi il termine per l'emanazione dei decreti e di 10 mesi il termine entro cui i contratti collettivi dovevano risultare stipulati.
Il legislatore tornò a sperimentare soluzioni parziali e settoriali, ispirate al programma di pervenire in via indiretta alla dilatazione dell'ambito di efficacia dei contratti collettivi.
Fra gli interventi legislativi volti a favorire, mediante una coazione indiretta sul datore di lavoro, l'estensione dell'ambito di applicazione dei contratti collettivi, vanno annoverati quelli in materia di fiscalizzazione degli oneri sociali, che condizionano la fruizione del relativo beneficio alla circostanza che l'impresa assicuri ai propri dipendenti
trattamenti non inferiori ai minimi previsti dai contratti collettivi nazionali di categoria stipulati dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative.
L'ambito di efficacia del contratto collettivo di livello aziendale.[]
La contrattazione aziendale ha acquisito sempre maggiori spazi all'interno del sistema a partire dai primi anni '60 e con un picco negli anni '70. è ora pacifica in giurisprudenza la definizione del contratto collettivo aziendale come atto di autonomia negoziale, preordinato ad un'uniforme disciplina dell'interesse collettivo dei lavoratori, sia pur limitatamente ad una sola azienda.
Anche sulla contrattazione collettiva aziendale si è scaricata la contraddizione tra l'inevitabile ricostruzione privatistica e la tendenziale vocazione a costituire la disciplina del lavoro di tutti gli occupati nell'azienda, senza distinzioni o discriminazioni derivanti dall'affiliazione sindacale.
Di qui una serie di ricostruzioni volte a dilatarne l'efficacia oltre i ristretti ambiti designati dal meccanismo della rappresentanza privatistica.
Tentativi agevolati dalla circostanza che la generalizzazione della contrattazione aziendale non incontrerebbe gli stessi ostacoli costituzionali previsti dall'articolo 39 della Costituzione, seconda parte, per la contrattazione nazionale. Ciò sul presupposto che il modello designato dal costituente sia funzionalmente strutturato sul contratto nazionale di categoria ed alluda espressamente ad un ambito categoriale. Secondo questa tesi sarebbe ammissibile un'estensione dell'efficacia del contratto aziendale tramite meccanismi maggioritari diversi da quelli canonizzati nella seconda parte dell'articolo 39 della Costituzione.
In periodi di benessere dell'economia, l'estensione dell'efficacia anche ai non iscritti ai sindacati stipulanti era auspicata e eprseguita allo scopo di garantire anche a questi ultimi i migliori trattamenti pattuiti aziendalmente.
In fase di crisi, la contrattazione aziendale propone sovente trattamenti peggiorativi o mediazioni al ribasso allo scopo di salvaguardare la competitività e, talora, la stessa sopravvivenza dell'impresa nel mercato globale.
Le istanze che ispirano l'erga omnes sono di provenienza datoriale, nel senso che sono i datori ad auspicare che i trattamenti deteriori o le misure di flessibilizzazione siano opponibili a tutti i dipendenti. Gli argomenti utilizzati per fondare l'efficacia erga omnes del contratto collettivo sulla base di un presumibile consenso del lavoratore diventano in questo caso irreversibili.
Più convincente è il riconoscimento dell'efficacia erga omnes ai contratti aziendali oggetto di esplicito rinvio regolamentare da parte della legge.
Quando il legislatore chiama la contrattazione aziendale ad integrare il precetto legislativo si è soliti ritenere che ad essa attribuisca implicitamente una valenza normativa generale, a prescindere dall'affiliazione sindacale dei dipendenti. Il contratto collettivo aziendale resta un atto di autonomia privata concluso tra privati e sottoposto a disciplina civilistica, ma diviene un elemento della fattispecie legale, acquisendo efficacia in forza della legge che la richiama e recepisce.
Sovente il legislatore attribuisce alla contrattazione aziendale il potere di modificare od attenuare determinate rigidità legislative afferenti la tipologia dei rapporti instaurandi o la gestione del personale.
Nella Legge numero 297 del 1982 il contratto collettivo è veicolo per eventuali deroghe alla nozione legale di retribuzione utile per il trattamento di fine rapporto; nel Decreto Legislativo numero 368 del 2001 è veicolo per le deroghe al divieto di apposizione del termine di cui all'articolo 3; nel Decreto legislativo numero 66 del 2003 è il tramite di eventuali deroghe sulle modalità di fruizione delle ferie di cui all'articolo 10; nel Decreto Legislativo numero 276 del 2003 è il tramite per la rimozione dei divieti di stipulazione in materia di somministrazione di manodopera e di lavoro intermittente, sulla falsariga di quanto avviene per il contratto a termine.
In altri casi, l'accordo sindacale viene assunto nell'ambito di più complesse fattispecie e determinati effetti giuridici generalizzati si producono in dipendenza di elementi ulteriori, con esso concorrenti.
Talora è il potere unilaterale del datore di lavoro che viene limitato dal contratto collettivo aziendale, sicchè è il primo che accetta di contenere o proceduralizzare il proprio potere e tale limitazione è operativa nei confronti dell'intera maestranza aziendale.
In questa scia argomentativa si è posta la Corte costituzionale con il dichiarare la legittimità dell'articolo 5 della Legge numero 223 del 1991, che affida ai contratti collettivi il compito di determinare i criteri di scelta dei lavoratori da licenziare. Il contratto aziendale non ha sempre una funzione normativa, ma anzi spesso assume una funzione gestionale, nel senso che si occupa di gestire situazioni di crisi, in occasione delle quali può farsi veicolo di distribuzione di sacrifici, anche in deroga a specifiche garanzie previste dalla legge, se espressamente consentito dalla stessa legge. In tali ipotesi, l'accordo sindacale non spiega direttamente i propri effetti sul rapporto di lavoro. L'effetto erga omnes, in altre parole, discende pur sempre dall'atto del datore di lavoro che esercita i suoi poteri imprenditoriali e non dall'accordo sindacale gestionale, che si configura quale mero tramite per la procedimentalizzazione dell'esercizio di quei poteri.
Lo schema della procedimentalizzazione riecheggia anche nella pronunciadella Corte costituzionale numero 344 del 1996, avente ad oggetto gli accordi di determinazione delle prestazioni indispensabili nel settore dei servizi pubblici essenziali. Nel negare a tali accordi la natura di fonte diretta degli obblighi nascenti in capo ai lavoratori, la Corte li configura come momento di una sequenza procedimentale atta ad esplicitare regole giò presenti nel complesso sistema nirmativo delineato dalla Legge numero 146 del 1990. Pur valorizzando la peculiarità di questi contratti collettivi, la pronuncia numero 344 giunge a ritenere necessaria per la generalizzazione del vincolo la mediazione di un atto ulteriore, ovvero il regolamento di servizio.
Il primo tipo dei contratti di solidarietà è pienamente riconducibile al sistema della Cig straordinaria. L'accordo sindacale entra a far parte di una più complessa fattispecie. Gli effetti modificativi sui rapporti di lavoro discendono non dall'accordo sindacale ma dal provvedimento ministerriale di ammissione all'integrazione salariale.
Neppure i contratti di solidarietà del secondo tipo sono provvisti dal legislatore di generale efficacia normativa nei confronti di tutti i rapporti individuali. La disciplina legislativa prescinde da simile profilo, e si limita ad assumere i contratti di solidarietà quali presupposto di interventi di sostegno e favore del datore di lavoro o dei lavoratori prossimi al pensionamento.
Un diverso strumento di estensione dell'efficacia soggettiva è rappresentato dalle clausole di inscindibilità inserite normalmente nei contratti collettivi, laddove impediscono al singolo, non associato al sindacato firmatario od al sindacato che ha espresso il rappresentante sindacale, di disaggregarne il contenuto. Tale inscindibilità può essere riferita non solo al contratto collettivo in sè e per sè considerato, ma all'intera sequenza contrattuale cui viene ad inerire il trattamento economico e normativo dei singoli.
Più suadente sembra la tesi che connette l'efficacia generale alla conclusione del contratto aziendale da parte della RSU. Questa nasce istituzionalmente, come soggetto sindacale dotato sia della rappresentatività sindacale sia della rappresentanza diretta dei lavoratori. Ai contratti siglati dalla RSU la giurisprudenza riconosce l'efficacia generale. L'argomento di fondo resta quello classico del mandato e dell'investitura da parte dei lavoratori.
La soluzione mostra la corda in presenza dei sempre più frequenti accordi separati, cioè sottoscritti solo da una parte dei componenti della RSU: la stessa giurisprudenza opta per l'efficacia limitata ai soli lavoratori iscritti alle associazioni sindacali i cui rappresentanti nella RSU hanno approvato il contratto aziendale, ritenendo il contratto non vincolante per gli iscritti a sindacati dissenzienti.
Anche la Corte di Cassazione ha escluso che l'efficacia possa essere estesa ai lavoratori aderenti ad un'organizzazione sindacale diversa da quella stipulante e che ne condividano l'esplicito dissenso, in ossequio al principio di libertà sindacale ed in coerenza con il nostro sistema giuridico.
Si crea in tal caso il paradossale effetto per cui trattamenti meno favorevoli sono applicabili agli associati ai sindacati più responsabili o più inclini alla dialettica contrattuale e non agli iscritti ai sindacati più irriducibili e conflittuali.
La moltiplicazione di simili problematiche accentuata dall'incombenza e dalle necessità della competizione globale ed emblematizzata dalla recente vicenda contrattuale che ha interessato alcune società del gruppo Fiat, ha alimentato l'auspicio di un intervento riformatore capace di evitare lo stallo negoziale in presenza di contrasti all'interno della RSU e di predisporre una procedura democratico-maggioritaria, quale premessa per un riconoscimento ufficiale dell'efficacia generale dei contratti aziendali.
Le parti sociali, con l'Accordo interconfederale del 28 giugno 2011, hanno sancito che le pattuizioni in materia economica e normativa dei contratti collettivi aziendali sono efficaci per tutto il personale occupato se approvate dalla maggioranza dei componenti della RSU.
Nel diverso caso in cui siano presenti le RSA di cui all'articolo 19 dello Statuto dei lavoratori, in luogo delle RSU, la medesima efficacia generale viene conferita al contratto aziendale se ricorrono due condizioni: che il contratto sia approvato da RSA costituita nell'ambito di organizzazioni sindacali che nella medesima unità produttiva registrano la maggioranza di associati rispetto al numero complessivo dei lavoratori sindacalizzati, il numero di associati viene desunto dalle deleghe fatte al datore di lavoro per il versamento, tramite trattenuta sullo stipendio, dei contributi associativi sindacali; che il contratto sia approvato dalla maggioranza dei votanti se viene richiesta una consultazione elettorale tra i lavoratori da almeno una delle OO.SS. firmatarie dell'Accordo interconfederale del 28 giugno 2011 o da almeno il 30% dei lavoratori occupati nell'azienda.
L'Accordo interconfederale non produce un vero effetto erga omnes, ma vincola alle pattuizioni collettive soltanto gli associati alle OO.SS. che lo hanno stipulato ed ai sindacati di categoria che a queste ultime fanno capo.
In dottrina si è anche sostenuto che, allorquando il contratto individuale è provvisto della clausola di rinvio alla fonte collettiva, l'accordo interconfederale fornisce ora i criteri per stabilire quando il contratto collettivo possa essere ascritto alla fonte medesima con conseguente applicabilità al contratto individuale, indipendentemente dai profili dell'appartenenza sindacale dei singoli.
L'intervento legislativo di estensione degli effetti del contratto aziendale realizzato dall'articolo 8 della Legge numero 148 del 14 settembre 2011 ora sancisce l'efficacia nei confronti di tutta la comunità aziendale dei contratti collettivi aziendali. a prescindere da ogni specifica affiliazione sindacale, ciò a condizione che i contratti: siano sottoscritti da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale; siano conculsi sulla base di un consenso maggioritario, non meglio specificato; siano finalizzati alla maggiore occupazione, alla qualità dei contratti di lavoro, all'adozione di forme di partecipazione dei lavoratori, all'emersione del lavoro irregolare, agli incrementi di competitività e di salario, alla gestione delle crisi aziendali ed occupazionali, agli investimenti ed all'avvio di nuove attività. Devono avere ad oggetto: gli impianti audiovisivi e l'introduzione di nuove tecnologie; le mansioni del lavoratore, la classificazione ed inquadramento del personale; i contratti a termine, i contratti ad orario ridotto, modulato o dlessibile, il regime della solidarietà negli appalti ed i casi di ricorso alla somministrazione di lavoro; la disciplina dell'orario di lavoro; le modalità di assunzione e disciplina del rapporto di lavoro.
Nel testo legislativo la tassatività dell'indicazione delle materie viene a sfumare per effetto dell'omnicomprensivo riferimento alla disciplina del rapporto di lavoro.
Il comma 3 dell'articolo 8 estende retroattivamente l'efficacia generale anche ai contratti collettivi aziendali già conclusi prima dell'Accordo interconfederale del 28 giugno 2011 alla sola condizione che siano approvati con votazione a maggioranza dei lavoratori interessati.
La normativa in questione è nata anche sotto la spinta dell'emblematica vicenda Fiat, cioè in vista della necessità di assicurare agli iniziali Accordi di stabilimento di Pomigliano e Mirafiori ed alle loro flessibilità un'efficacia anche nei confronti dei lavoratori associati alla Fiom - Cgil che ne aveva rifiutato la sottoscrizione.
Allorquando l'articolo 8 è stato varato, ha perso tale specifica destinazione, in quanto nel frattempo la Fiat ha protato tutte le società del Gruppo fuori da Confindustria, sottraendosi all'applicazione dei Contratti collettivi nazionali di lavoro e rendendo di fatto la nuova disciplina collettiva pattuita specificamente per tutte le aziende del Gruppo.
Nei riguardi del descritto intervento legislativo sono stati avanzati in dottrina dubbi di legittimità costituzionale da diverse angolazioni e che la Corte costituzionale è già stata investita della questione.
La problematica dell'inderogabilità del contratto collettivo nei confronti degli accordi individuali.[]
Il tema dell'inderogabilità del contratto collettivo da parte del contratto individuale di lavoro presenta identiche questioni sia per il CCNL che per il contratto aziendale.
Lì dove il contratto collettivo è applicabile dal punto di vista dell'efficacia soggettiva, resta da stabilire quale efficacia si esplichi nei confronti del contratto individuale e nei confronti delle clausole difformi previste nella regolamentazione convenuta dalle parti sociali.
Una volta correlata l'efficacia di tale contratto alla rappresentanza bilaterale apparve subito problematico fondarne l'inderogabilità sul diritto comune. Per diritto comune, i rappresentati possono sempre di comune accordo modificare la regolamentazione di quegli interessi disposta in loro nome e per loro conto dai rappresentanti. Nè è lecito argomentare diversamente sulla base degli articoli 1723 e 1726 del codice civile in tema di mandato, i quali stabiliscono che il mandante non può senza giusta causa revocare il mandato
conferito anche nell'interesse del mandatario o di terzi, ovvero conferito da più persone con unico atto e per un affare d'interesse comune
ma non prevedono certamente che il mandante deve poi restare fedele alla disciplina dell'affare posta in essere dal mandatario.
La giurisprudenza fece ricorso alla disciplina tipica del contratto corporativo contenuta nel codice civile, considerando ancora vigente e riferibile anche ai contratti collettivi privatistici la normativa dell'articolo 2088, secondo cui i contratti individuali
devono uniformarsi alle disposizioni del contratto collettivo e le clausole eventualmente difformi sono sostituite di diritto da quelle del contratto collettivo, salvo che contengano speciali condizioni più favorevoli ai prestatori di lavoro.
Le norme codicistiche dettate con riguardo al contratto corporativo non sono state esplicitamente abrogate, nè possono ritenersi implicitamente abrogate se non in quanto siano incompatibili con i principi informatori dell'ordinamento giuridico postcorporativo. Tale incompatibilità non sussiste per l'articolo 2077, la cui disciplina risponde
al contenuto ed allo scopo che ineriscono ad ogni tipo di contratto collettivo, sia di natura pubblicistica che privatistica, giacchè finalità specifica della stipulazione dei contratti collettivi, che prescinde dalla fisionomia giuridica delle associazioni stipulanti, è precisamente quella di sottoporre la pluralità dei soggetti che esse rappresentano ad una comune disciplina dei rapporti individuali di lavoro e di sottrarre, quindi, la regolamentazione dei rapporti stessi alla libera disponibilità dei singoli.
L'orientamento man mano si diffuse e si consolidò, fino a divenire pacifico. Non ha mai riscosso il consenso della dottrina, la quale ha rimproverato alla giurisprudenza di essere incorsa in una petizione di principio, utilizzando quale premessa del procedimento argomentativo proprio quanto andava dimostrato, e cioè la riferibilità ad un contratto privatistico, nel quadro dell'ordinamento giuridico post corporativo, di regole certamente dettate in ragione della particolare natura del contratto corporativo. Alcuni autori si sono sforzati di pervenire per vie diverse al medesimo risultato dell'inderogabilità del contratto collettivo. Qualcuno ha creduto di poter ricondurre siffatta prevalenza alla stessa volontà dei singoli che accetterebbero di subordinare il proprio interesse individuale a quello collettivo e conseguentemente dismetterebbero il proprio potere di regolare autonomamente il rapporto di lavoro; mentre altri hanno sostenuto che l'organizzazione sindacale è titolare ed esercita con il contratto collettivo un potere, riconosciuto dall'articolo 39 della Costituzione, di regolamentazione del rapporto di lavoro, potere proprio ed eutonomo, o, comunque, qualitativamente diverso da quello afferente agli associati.
Entrambe queste ricostruzioni non possono considerarsi del tutto soddisfacenti. Da un lato si è obiettato che, considerando il sindacato titolare per derivazione-dismissione dello stesso potere di regolamentazione del rapporto proprio dei singoli, non è possibile spiegare la prevalenza normativa della disciplina pattuita collettivamente rispetto a quella pattuita individualmente. Per diritto comune, il rappresentato può anche impegnarsi nei confronti del rappresentante a tenere ferma la disciplina che questi porrà in essere. ma non può attribuire al rappresentante il potere di dotare tale disciplina di efficacia reale, cioè di efficacia caducante ogni diversa pattuizione individuale. D'altro lato, l'individuazione degli indici eteronomi della sovraordinazione del potere sindacale si è rivelata ardua e tutt'altro che univoca; e lo stesso richiamo all'articolo 39 della Costituzione è troppo generico per fondare il riconoscimento della funzione normativa del contratto collettivo rispetto al contratto individuale.
Quale che sia la valutazione circa la persuasività delle riferite impostazioni dottrinali, è certo che esse sono servite storicamente a colmare il divario tra dottrina e giurisprudenza ed a porre le premesse per l'immediata ed unanime valorizzazione, senza traumi e rotture, dell'indice normativo offerto nel 1973 dalla riscrittura dell'articolo 2113 del codice civile e dell'articolo 808 del codice di procedura civile.
Il vecchio testo dell'articolo 2113 sanciva l'invalidità delle rinuncie e transazioni aventi per oggetto
diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge o da norme corporative.
Il nuovo testo del 1973 accanto alle disposizioni inderogabili della legge contempla quelle dei contratti od accordi collettivi. Se sono invalide le rinunce e le transazioni conculse dal singolo lavoratore aventi ad oggetto diritti sanciti dal contratto collettivo, lo saranno anche pattuizioni individuali, difformi dal contratto collettivo concluse all'atto dell'assunzione.
L'assimilazione della norma di contratto collettivo alla norma di legge dall'angolazione del tipo di efficacia sui rapporti individuali è rinvenibile altresì nel nuovo testo dell'articolo 808 del codice di procedura civile, che equipara la violazione e falsa applicazione dei contratti collettivi alla violazione delle regole di diritto previste dall'articolo 829 del codice di procedura civile.
Anche il ricorso agli articoli 2114 del codice civile e 808 del codice di procedura civile, però, non convince del tutto. Nel contesto di tali norme l'individuazione della difforme manifestazione di volontà individuale è pur sempre condizionata da un termine di decadenza, il cui mancato rispetto produce la stabilizzazione della volontà individuale abdicativa. Non può dubitarsi del fatto che gli articoli in questione sono, comunque, sintomatici di una qualche supremazia del contratto collettivo nei confronti dell'autonomia individuale.
L'equiparazione del contratto collettivo alla legge sul piano dell'inderogabilità non coinvolge il piano dell'ambito di efficacia soggettiva, che, almeno per il CCNL, resta circoscritto all'ambito degli associati ai sindacati stipulanti. In condizioni di inattuazione della seconda parte dell'articolo 39 della Costituzione è lo stesso principio di libertà sindacale che vuole il potere dei sindacati limitato allo spettro associativo, nel cui ambito solamente essi possono essere riconosciuti titolari dell'interesse collettivo, mentre fuori dallo spettro associativo non si giustifica la compressione delle scelte individuali.
La giurisprudenza negli ultimi tempi si è sovente discostata dal modello della rappresentanza di volontà corretto con la previsione dell'articolo 2077 del codice civile, riconoscendo che nell'ordinamento è ormai consacrato un potere sindacale di regolazione dei rapporti individuali di lavoro, potere autonomo rispetto a quello dei singoli, cioè non riconducibile alla mera rappresentanza delle volontà individuali.
La derogabilità in melius ad opera del contratto individuale.[]
Già le norme della legislazione in materia di lavoro sono pacificamente considerate dagli interpreti inderogabili in peius, ma derogabili in melius, in quanto funzionalmente rivolte a porre una disciplina minimale di protezione del lavoratore.
La medesima funzione di tutela minimale viene comunemente riconosciuta anche al contratto collettivo. La giurisprudenza ha potuto vedere la regola della derogabilità in melius codificata nell'articolo 2077 del codice civile, oltrechè confermata dalla Legge numero 741 del 1959.
Per stabilire se un trattamento collettivo sia o meno più favorevole al lavoratore rispetto al trattamento individualmente previsto non bisogna rafforzare singole clausole, ma guardare all'insieme delle clausole che costituiscono un istituto. Ciò anche in ragione della diffusa riconoscenza, nei contratti collettivi, di clausole di inscindibilità, le quali dichiarano inscindibili le disposizioni relativi a ciascun istituto ed escludono che esse possano essere disaggregate, con applicazione delle sole più favorevoli. Si applica allora integralmente la disciplina nel complesso più favorevole e non si cumulano le singole micro disposizioni più favorevoli del contratto collettivo e del contratto individuale, realizzandosi la compensazione tra deroghe migliorative e deroghe peggiorative all'interno di ogni singolo istituto.
Non hanno avuto fortuna i tentativi di operare il rafforzamento tra l'intera disciplina del contratto collettivo e l'intera dsciplina del contratto individuale. La giurisprudenza si è orientata nel senso di ricondurre ad unico istituto l'intero trattamento economico.
Ulteriore questione è quella della tenuta nel tempo delle condizioni di miglior favore pattuite tra datore e lavoratore a livello individuale. Ci si chiede se tali condizioni resistono al sopraggiungere del nuovo contratto collettivo e si cumulano con i benefici da questo discendenti oppure se vengano assorbite, eventualmente fino a concorrenza.
La giurisprudenza prevalente ritiene che le condizioni individuali di miglior favore resistano al sopraggiungere della nuova disciplina collettiva solo se sia provato che sono state pattuite intuitu personae, cioè in considerazione di particolari meriti del lavoratore stesso o di particolari circostanze afferenti il suo rapporto di lavoro. Questo generale principio di riassorbimento salariale viene sostanzialmente agganciato ad un'interpretazione del voluto contrattuale delle parti; talora viene desunto dall'articolo 2077 del codice civile.
Si tratta di una lettura dell'articolo 2077 scarsamente convincente, e per di più inconciliabile con quella che della stessa norma viene offerta allorchè si ritiene che le condizioni individuali più favorevoli rispetto alla disciplina collettiva vigente siano valide e vincolanti indipendentemente dal fatto che siano pattuite in considerazione di particolari meriti del singolo lavoratore.
I rapporti tra contratti collettivi.[]
I rapporti tra contratti collettivi di pari livello che si succedono nel tempo.[]
L'efficacia del contratto collettivo era stata in passato spiegata come meccanica incorporazione del contratto individuale. Sicchè anche al variare della disciplina del contratto collettivo si riteneva che il trattamento migliorativo del precedente contratto collettivo fosse intangibilmente acquisito dal singolo lavoratore, salvo suo espresso consenso. La teoria dell'incorporazione comportava l'impossibilità per i contratti collettivi di modificare in peius i trattamenti già previsti, condannando l'autonomia collettiva ad un moto perennemente ascensionale.
Ben presto la teoria dell'incorporazione fu abbandonata, ritenendosi che il contratto individuale riflette come uno specchio le previsioni del contratto collettivo nel loro divenire; con la conseguenza di adeguarsi flessibilmente alle sue previsioni cangianti nel tempo e di recepire anche eventuali variazioni in peius.
Quanto al tipo di incidenza sul contratto individuale, il contratto collettivo trova assimilazione alla legge, in quanto opera dall'esterno, quale fonte eteronoma e non mediante incorporazione.
Se un diritto od un trattamento migliorativo è stato riconosciuto al lavoratore esclusivamente nel contratto individuale, neanche un nuovo contratto collettivo potrà azzerarlo, ma solo una nuova pattuizione individuale potrà fare ciò.
I rappotri tra contratti collettivi di diverso livello.[]
L'inderogabilità del CCNL è stata oggetto di dibattito ancor più complesso allorquando riferita ai contratti collettivi aziendali, cioè al vincolo regolamentare nei confronti di questi ultimi.
Non è agevole trovare un criterio ordinare o di prevalenza per l'ipotesi che livello nazionale e livello aziendale disciplinino diversamente lo stesso istituto.
Il dubbio si pone soprattutto in ordine alla possibilità che il contratto aziendale modifichi in peius alcune previsioni del contratto nazionale, non essendo in dubbio che i due livelli possano introdurre in successione discipline rispettivamente migliorative in favore del lavore.
La questione non si pone con riguardo ai rapporti tra contratti di categoria e contratti intercategoriali, perchè sono difficilmente rinvenibili in concreto casi di interferenza dei secondi rispetto alla disciplina contenuta nei primi.
Storicamente la questione cominciò a porsi con riguardo ai rapporti tra contratti di categoria e contratti stipulati in azienda dalla commissione interna. La giurisprudenza si orientò ad affermare l'inderogabilità in peius dei primi ad opera dei secondi mediante la diretta applicazione dell'articolo 2077 del codice civile, sul presupposto che questi ultimi non potessero qualificarsi come collettivi in senso proprio, e si risolvessero in una serie di pattuizioni individuali tra datore di lavoro e singoli lavoratori.
Il quadro di riferimento è mutato con l'inizio degli anni '60, in relazione ai contratti aziendali stipulati prima dai sindacati territoriali di categoria e poi dagli organismi sindacali di azienda.
Per un certo tempo, la giurisprudenza è parsa ancora propesa a ritenere l'inderogabilità in peius del contratto di categoria in favore di motivazioni diverse.
Sul finire degli anni '70 il panorama giurisprudenziale è però divenuto assai meno univoco e decifrabile. Nello sforzo di risolvere la questione dei rapporti tra livelli diversi di contrattazione attraverso la ricostruzione in termini giuridici dei rapporti interni all'organizzazione sindacale, la giurisprudenza è pervenuta a risultati radicalmente contrastanti.
In una sentenza della Cassazione del 1978 la derogabilità in peius del contratto di categoria ad opera del contratto aziendale viene fondata sulla revocabilità del mandato sindacale conferito dal livello individuale agli stipulanti il contratto aziendale e da questi ultimi agli artefici del contratto nazionale:
opera nella indicata ipotesi con tutta la sua forza vincolante, il principio della libera volontà delle parti contraenti, le quali, attraverso un'implicita revoca del mandato conferito alle associazioni che hanno stipulato il contratto collettivo, ritengono, in sede aziendale, di disciplinare in maniera difforme dal contratto collettivo il rapporto contrattuale dei lavoratori che entrino a far parte dell'azienda.
A questa ricostruzione dei rapporti interni all'organizzazione sindacale operata alla stregua del mandato ascendente, un'altra sentenza del 1978, sempre della Cassazione, ha contrapposto una ricostruzione di tali rapporti fondata sul mandato discendente echeggiante impostazioni già prospettate in giurisprudenza ed in dottrina in epoca più remota, ed è così pervenuta a sostenere che, essendo le associazioni di livello inferiore gerarchicamente subordinate a quelle di livello superiore, i contratti aziendali non possono modificare in peggio la disciplina dettata da quelli di categoria, mentre i secondi possono modificare in peggio la disciplina dettata dai primi.
La Corte ha cercato di trovare conforto nella scelta di politica legislativa sottesa all'articolo 19 della Legge numero 300/1970: l'avere il legislatore riferito il suo riconoscimento e la correlativa tutela solo
a quegli organismi che siano espressione di associazioni sindacali non costituite nel limitato ambito dell'azienda porta conseguentemente a configurare fra le rappresentanze sindacali aziendali e le più vaste associazioni di categoria nel cui ambito le stesse possono essere costituite un rapporto di gerarchia nel senso lato del termine, che necessariamente si riflette, con evidente necessario parallelismo, sugli atti delle medesime compiute e, in particolare, sul rapporto fra i contratti collettivi stipulati dalle rappresentanze sindacali e quelli stipulati dalle associazioni nazionali cui aderiscono.
Agli inizi degli anni '80 è andato prendendo piede un orientamento, tutt'affatto diverso, incline ad attribuire comunque prevalenza alla disciplina posteriore nel tempo.
La giurisprudenza ha ritenuto di poter trasferire sul piano del rapporto tra contratto di categoria e contratto aziendale il principio, costantemente utilizzato sul piano del rapporto tra contratti corporativi e contratti collettivi di diritto comune nonchè tra contratti collettivi di diritto comune dello stesso livello, secondo cui quando ad una regolamentazione di carattere generale ne segue un'altra di carattere parimenti generale, la seconda si sostituisce integralmente alla prima.
Bisogna riconoscere che la prevalenza del contratto posteriore nel tempo esprime l'assenza, nell'ordinamento, di un criterio affidabile per la soluzione dei conflitti di disciplina tra contratti collettivi di diverso livello.
La preoccupazione di scongiurare discrepanze economico - normative nell'ambito di un unico sistema strutturale e funzionale posto dalle parti collettive con presumibile coerenza, ha favorito la creazione e l'uso, in funzione compensativa, di altri criteri.
Un tentativo di operare un coordinamento tra i due livelli contrattuali fu operato con il Protocollo del 23 luglio 1993, il quale dispone che il contratto aziendale ha ad oggetto materie ed istituti diversi e non ripetitivi rispetto a quelli propri del contratto nazionale; mentre è quest'ultimo a stabilire modalità, ambiti, tempi ed articolazioni del primo.
La complessa diatriba ha trovato un certo componimento nel recente Accordo interconfederale del 28 giugno 2011 e, soprattutto, nell'articolo 8 della Legge 14 settembre 2011 numero 148.
Il primo ha previsto che i contratti collettivi aziendali possono definire intese modificative delle regolamentazioni contenute nei CCNL, in ista della necessità di aderire alle esigenze degli specifici contesti produttivi, ma solo nei limiti e con le procedure previste dagli stessi CCNL.
Legge ed autonomia collettiva.[]
La regola: l'inderogabilità in peius della legge.[]
Il contratto collettivo deve ritenersi gerarchicamente subordinato alla legge. Secondo una dottrina minoritaria la valorizzazione costituzionale dell'autonomia sindacale dovrebbe comportare la strutturale derogabilità la parte del contratto collettivo della disciplina legale in materia di lavoro, almeno di quella non diretta alla salvaguardia delle primarie esigenze di dignità, libertà e sicurezza della persona umana.
L'opinione prevalente è nel senso che il legislatore costituzionale ha affidato anzitutto al legislatore ordinario il compito di provedere alla tutela minima del lavoratore, tutela che non può mai essere scalfita dalla contrattazione collettiva.
L'opinione ha ricevuto l'avallo dello stesso legislatore ordinario, allorchè è stata sancita la subordinazione gerarchica dei decreti delegati rispetto alle norme imperative di legge. Con la conseguenza che la legge costituisce per l'autonomia collettiva un limite invalicabile a sfavore del laoratore, e valicabile invece a suo vantaggio.
Tra legge e contratto collettivo, come tra legge e contratto individuale, il raffronto viene poi comunemente operato con riferimento a singole clausole e secondo la tecnica della nullità e della sostituzione automatica. Il giudice dichiara nulla la clausola collettiva difforme in peius rispetto alla previsione legale e la considera sostituita di diritto da quest'ultima e tale effetto di caducazione e sostituzione non può essere evitato in virtù di compensazione con il contenuto eventualmente migliorativo di altre clausole dello stesso contratto.
Non è sempre agevole l'individuazione dei confini delle singole clausole. Si discute se nella previsione legislativa in materia di retribuzione del lavoro straordinario, percentuale di maggiorazione e base di computo costituiscano un'unica clausola o clausole distinte. Dovrebbe optarsi per la prima soluzione, se si ritiene che la clausola sia costituita da una proposizione dotata di compiuto contenuto volitivo e capace di produrre un preciso effetto giuridico.
Nell'operare il confronto tra legge e contratto collettivo il giudice tende a trascurare che la norma di legge frequentemente presuppone o rinvia a dati di tipicità storica ed ambientale, rispetto ai quali la valutazione delle parti sociali è certamente più significativa e rappresentativa della propria personale valutazione.
Non si tratta allora di negare la prevalenza della legge sul contratto collettivo, ma di registrare come il contenuto del precetto legale possa in molti casi essere correttamente individuato solo per mezzo del contratto collettivo stesso e di astenersi quindi, in tali casi, dal contrapporre alle scelte dell'autonomia collettiva pretese valutazioni legali ricostruite sulla base tendenzalmente esclusiva di elementi tratti dall'interno dei testi di legge o di valutazioni soggettive del giudice.
Nel tempo questo modello di rapporto tra legge e contratto collettivo ha subito gli effetti di una duplice alterazione: da un lato, è andato diffondendosi il modello deregolativo, che prevede espressamente la derogabilità in peius del precetto legale da parte della contrattazione collettiva; dall'altro, vi sono stati interventi legislativi che si sono posti come massimi invalicabili nei confronti della contrattazione collettiva.
L'eccezione: il modello deregolativo e la possibilità di deroghe peggiorative ad opera della contrattazione collettiva.[]
Sono oggi numerose le ipotesi in cui il legislatore utilizza la contrattazione collettiva come veicolo di attenuazione della propria stessa rigidità, attribuendole il potere di derogare in peius, o, forse più propriamente, affidandole il compito di individuare o modificare il precetto legale, da sola od in concorso con le valutazioni di organismi pubblici.
Si richiamino alla memoria gli articoli 4 e 6 dello Statuto dei lavoratori, in materia di divieto di installazione di impianti audiovisivi e dell'effettuazione di visite personali di controllo; l'articolo 1 della Legge numero 297 del 1982 relativamente alla determinazione della retribuzione utile ai fini del trattamento di fine rapporto; gli articoli 1 e 2 della Legge numero 863/1984, in materia di contratti di solidarietà; l'articolo 47 comma 5 della Legge numero 428/1990, in materia di trasferimento d'azienda; l'articolo 4 comma 11 della Legge numero 223/1991, che permette la deroga all'articolo 2103 del codice civile, cioè l'assegnazione del lavoratore a mansioni non equivalenti, nel contesto delle procedure di mobilità; il Decreto Legislativo numero 61 del 2000, in materia di lavoro a tempo parziale, specie come modificato dall'articolo 46 del Decreto Legislativo numero 276 del 2003; il Decreto Legislativo numero 368 del 2001, in materia di lavoro a termine; il Decreto Legislativo numero 66 del 2003 sull'orario di lavoro; il Decreto Legislativo numero 276 del 2003; la Legge numero 247/2007 che attribuisce alla contrattazione collettiva la facoltà di derogare, per una volta sola, al tetto massimo di 36 mesi posto in caso di successione di più contratti a termine; la Legge numero 92/2012 che prevede, sempre in materia di contratto a termine, la possibilità per i contratti collettivi di introdurre ipotesi di ulteriore legittima stipulazione in determine circostanze.
In tutti questi casi la contrattazione collettiva conclusa da sindacati rappresentativi è legittimata, in via di eccezione, a modificare le previsione di legge, ritenendosi essa capace di flessibilizzazione responsabilmente i vincoli legali, vuoi in cambio di benefici e garanzie relative a diversi istituti, vuoi in corrispettivo di potenziali benefici occupazionali.
Una sostanziale, e molto discussa innovazione legislativa è dato registrare nell'articolo 8 della Legge 14 settembre 2011 numero 148. Il comma 2 bis dell'articolo 8 conferisce alla contrattazione aziendale o territoriale la facoltà di deroga alle disposizioni di legge alle stesse condizioni postulate per l'efficacia erga omnes e cioè: la sottoscrizione da parte di soggetti collettivi qualificabili; l'approvazione a maggioranza; la finalizzazione ad esigenze specifiche e di particolare rilievo sociale; l'incidenza su specifici istituti e materie.
Il comma 2 bis chiarisce che il potere di deroga è vincolato al rispetto della Costituzione, o delle normative comunitarie e delle convenzioni internazionali in materia di lavoro.
La norma è stata fortemente contestata in quanto idonea ad incidere su tutele storicamente acquisite.
I difensori della novella sostengono che, malgrado gli imperativi della crisi ribaditi al nostro Governo da alcune Istituzioni europee il patrimonio garantistico del diritto del lavoro italiano non è stato intaccato, per via legislativa, e dunque, unilaterale.
In quest'ottica è possibile contestare la tesi che, rilevando la valenza costituzionale di tutte le norme del diritto del lavoro, deduce l'incostituzionalità del comma 2 bis dell'articolo 8.
In realtà, se tutte le discipline legali del diritto del lavoro trovano ispirazione in valori di rango costituzionale, non per questo possono essere considerate inderogabili le modalità o le misure delle singole tutele che sono esposte alle cangianti dinamiche sociali, politiche o dei rapporti di forza.
Non può tacersi che resta del tutto suberante l'aver incluso tra le materie oggetto di deroga ad opera della contrattazione aziendale la disciplina del lavoro, che attribuisce una facoltà derogatoria troppo lata ed omnicomprensiva all'autonomia collettiva in sede aziendale o territoriale. Per questa parte la norma si espone a censure di incostituzionalità.
La seconda eccezione. L'inderogabilità anche in melius: i tetti legislativi.[]
Sul versante opposto, con la legislazione sul costo del lavoro è stata per la prima volta sancita l'inderogabilità in melius ad oepra dell'autonomia collettiva di una normativa legislativa.
La Legge 31 marzo 1977 numero 91, che ha convertito il Decreto Legge 1° febbraio 1977 numero 12, ha precluso all'autonomia collettiva la possibilità sia di prevedere il computo dell'indennità di contingenza maturata dopo il 1° febbraio 1977 nella base di calcolo dell'indennità di anzianità sia di regolare l'istituto stesso dell'indennità di contingenza in termini più favorevoli di quelli risultanti dagli accordi interconfederali del 1957 e del 1975 e dalla prevalente contrattazione di categoria del settore industriale in atto al momento dell'intervento legislativo.
Con la Legge 12 giugno 1984 numero 219, che ha convertito il Decreto Legge numero 70/1984, il legislatore è tornato a comprimere l'autonomia collettiva sul piano dell'indennità di contingenza, fissanto autoritativamente il numero massimo dei punti di contingenza per il primo semestre del 1984.
La Legge numero 38/1986 è venuta con il sostanziale consenso delle parti sociali, ad estendere per un quadriennio all'area del lavoro privato la nuova disciplina della scala mobile introdotta per accordo con i sindacati nell'area dell'impiego pubblico.
La legge del 1986 è stata l'ultimo intervento normativo in materia di contingenza: l'accordo sulla politica dei redditi, la lotta all'inflazione ed il costo del lavoro del 31 luglio 1992 ha definitivamente sancito la cessazione del sistema di indicizzazione retributiva; mentre l'accordo del 23 luglio 1993 ha sostituito al meccanismo automatico della scala mobile la politica dei redditi.
Se gli interventi deregolativi hanno suscitato perplessità dall'angolazione della portata generale che per loro tramite sembra acquistare in taluni casi la disciplina del contratto collettivo di diritto comune, gli interventi limitativi hanno chiamato in causa gli stessi equilibri fondamentali dell'assetto istituzionale ed hanno così ravvisato il dibattito già sviluppatosi nella dottrina degli anni '60 con riguardo all'ipotesi della programmazione economica vincolante.
Chiamata a pronunciarsi sulle questioni di costituzionalità suscitate dalla Legge numero 91/1977, la Corte costituzionale le ha all'inizio largamente eluse, sbarazzandosene in poche battute:
sino a quando l'articolo 39 della Costituzione non sarù attuato, non si può nè si deve ipotizzare conflitto tra attività normativa dei sindacati ed attività legislativa del Parlamento e chiamare questa Corte ad arbitrarlo.
Ben diversa è stata la risposta con riguardo al Decreto Legge numero 70/1984: al legislatore deve essere riconosciuta la potestà di imporre limiti inderogabili alla contrattazione collettiva nel perseguimento di finalità di carattere pubblico, trascendenti l'ambito nel quale si colloca la libertà di organizzazione sindacale e la corrispondente autonomia negoziale tutelate dall'articolo 39 della Costituzione.
Simile impostazione la Corte ha seguito quando si è trovata ad affrontare nuovamente la questione di legittimità della Legge numero 91 del 1977, nella parte in cui esclude il computo della contingenza su elementi e con modi difformi rispetto alla normativa prevalente posta dai contratti del settore industriale: il giudice delle leggi ha ribadito l'insussistenza di una riserva legislativa a favore dei sindacati ed invocato la prioritaria rilevanza del fine di perequazione tra settore e settore della vita economica del Paese.
In una sola sentenza la Corte è giunta a sfumare la propria posizione di favore per la fonte legislativa, laddove ha dichiaratoil sopravvenuto contrasto tra la Legge numero 91 del 1977 e l'articolo 36 della Costituzione, in stretta connessione con l'articolo 39 della Costituzione.
Profili ulteriori di disciplina del contratto collettivo di diritto comune.[]
L'efficacia nel tempo del contratto collettivo: ultrattività, retroattività, diritti quesiti.[]
Le procedure di stipulazione dei contratti collettivi sono state formalizzate solo dal Protocollo del 23 luglio 1993, che prevedeva, relativamente al contratto nazionale di categoia, una durata di quattro anni per la parte normativa, e di due anni per la parte economica.
L'Accordo quadro separato del 22 gennaio 2009, in sostituzione del Protocollo del 1993, ridefinisce il periodo di vigenza del conflitto collettivo, stabilendo una durata triennale sia per la parte economica che per quella normativa. Sei mesi prima della scadenza del contratto nazionale, le organizzazioni dei datori e dei lavoratori si incontrano per avviare le trattative per il rinnovo.
Non è raro che la trattativa si prolunghi oltre il termine fisiologico di durata del contratto. Per quanto attiene alla parte economica, il Protocollo del luglio 1993 aveva introdotto l'istituto dell'indennità di vacanza contrattuale, un automatismo di secondo grado appositamente finalizzato a disincentivare i ritardi ed a proteggere temporaneamente i lavoratori.
Quando scade il termine apposto dalle parti stipulanti il contratto collettivo perde la sua efficacia e da quel momento cessa di conformare il contenuto dei rapporti individuali. Ciò perchè in ragione della sua natura privatistica, la giurisprudenza con larga prevalenza nega l'applicabilità al contratto collettivo di diritto comune dell'articolo 2074 del codice civile, che fondava l'ultrattività del contratto corporativo:
il contratto collettivo, anche quando è stato denunziato, continua a produrre i suoi effetti dopo la scadenza, fino a che sia intervenuto un nuovo regolamento collettivo.
Il regime di diritto comune avrebbe conseguenze pratiche molto gravi giacchè i rapporti di lavoro quando sono governati dal contratto collettivo ricevono quasi integralmente da esso la loro regolamentazione e questa verrebbe meno allo scadere del contratto collettivo.
Data la ricorrenza di siffatte previsioni, non vi è ragione di temere eventuali fluttuazioni del trattamento economico dei lavoratori a seguito di scadenza del contratto collettivo, e paiono invero eccessive le preoccupazioni di quella parte della giurisprudenza che ritiene sopravvivente un principio legale di ultrattività per la parte del contratto che dispone in materia di retribuzione. Tale tesi non solo trova fondamento normativo alcuno, ma si rivela anche foriera di pericolosi irrigidimenti delle parti salariali dei contratti collettivi nonchè contrastante con l'elaborazione in materia di successione temporale dei regolamenti contrattuali.
Un problema si è posto con riferimento al rinnovo del CCNL da parte soltanto di alcune OO.SS., nel dissenso di altra firmataria del contratto collettivo scaduto.
Il sindacato dissenziente ha sostenuto che il nuovo CCNL separato non vale a sostituire il precedente, che pertanto dovrebbe rimanere ancora in vigore, anche dopo la scadenza.
La tesi non sembra prevalente, ritenendosi che il nuovo CCNL integra la condizione prevista dalla clausola in questione e che il vecchio CCNL alla scadenza pattuita esaurisce i propri effetti.
Altra questione riguarda la possibile retroattività del regolamento collettivo. La giurisprudenza ritiene inapplicabile al contratto di diritto comune, così come l'articolo 2074 del codice civile, il comma 2 dell'articolo 11 delle disposizioni preliminari del codice civile, secondo cui i
contratti collettivi di lavoro possono stabilire per la loro efficacia una data anteriore alla pubblicazione, purchè non preceda quella della stipulazione.
Giunge a ritenere che di tali benefici possono giovarsi anche lavoratori il cui rapporto sia cessato anteriormente alla stipulazione del contratto collettivo, se questo non fa differenza tra rapporto cessato e rapporto in corso e se lo statuto dell'associazione sindacale stipulante non prevede la cessazione del vincolo associativo in dipendenza della cessazione del rapporto di lavoro.
In giurisprudenza è rinvenibile l'affermazione che il contratto collettivo può disporre retroattivamente anche
in malam parte (cioè a danno del lavoratore) con il solo limite dei diritti quesiti, ovvero di quei diritti che sono già entrati a far parte del patrimonio individuale del lavoratore, per effetto della precedente disciplina collettiva.
Ciò equivale a dire che il lavoratore non ha pretesa alcuna alla stabilità nel tempo di tale disciplina, e non può invocare aspettative legittimamente sorte in ragione del contratto collettivo sostituito.
La giurisprudenza ha sempre contestualmente precisato che
di diritto quesito si può propriamente parlare, sul piano tecnico - giuridico, solo in caso di successione di leggi, e non in caso di successione di diverse regolamentazioni contrattuali di uno stesso rapporto, in cui al principio dell'irretroattività si sostituisce quello della libera volontà dei contraenti, i quali possono conferire efficacia retroattiva al negozio successivo, e porre nel nulla ab origine la situazione determinata dal precedente contratto.
Alcuni orientamenti minoritari della giurisprudenza hanno fatto emergere la problematica degli accordi sindacali transattivi, con i quali le associazioni sindacali pongono fine ad una controversia insorta in sede applicativa del contratto collettivo, incidendo retroattivamente sulle situazioni dei singoli.
Secondo l'opinione dominante, il sindacato non può disporre dei diritti già maturati dai singoli a fronte di prestazioni lavorative già rese, nè attraverso contratti collettivi che modifichino retroattivamente la disciplina da cui quei diritti hanno tratto origine, nè attraverso accordi transattivi. Corrisponde alla collocazione stessa dell'autonomia collettiva nell'ordinamento la tesi che essa possa incidere sui rapporti individuali solo indirettamente. Una puntuale conferma è usualmente vista nella disciplina dell'articolo 2113 comma 4 del codice civile, laddove al sindacato non è riconosciuto alcun potere sostitutivo delle volontà dei singoli sul piano degli atti dispositivi di diritti individuali, ma solo una funzione di assistenza.
Per l'efficacia di tali accordi è pertanto necessario che da parte dei lavoratori venga rilasciato, anche per fatti concludenti, uno specifico mandato, o che l'accordo venga poi ratificato dagli stessi singoli lavoratori in modo inequivocabile. Viceversa è sufficiente la semplice iscrizione al sindacato per vincolare il lavoratore rispetto a nuove discipline collettive operanti per il futuro o su diritti non ancora entrati nel patrimonio individuale.
Al medesimo limite dell'indisponibilità dei limiti già maturati soggiaccione gli accordi interpretativi, con cui le parti stipulanti formalmente si limitano a chiarire significato e portata di determinate clausole contrattuali.
Occorre riconoscere a simili accordi quantomeno una funzione di orientamento dell'attività ermeneutica del giudice, soprattutto se si tiene conto che, nell'ambito del pubblico impiego, il Decreto Legislativo numero 165/2001 prevede che l'accordo raggiunto dalle parti per definire contestualmente il significato delle clausole controverse sostituisce queste ultime con effetto retroattivo.
Interpretazione e recesso.[]
Per tradizione giurisprudenziale ormai legislativamente consacrata, il contratto collettivo di diritto comune, quand'è applicabile, opera ne confronti del contratto individuale con la stessa efficacia della legge. Esso resta un atto di autonomia privata.
Dalla sua natura privatistica viene comunque fatta discendere una serie di conseg'uenze.'
Il contratto collettivo deve essere interpretato secondo i criteri ermeneutici previsti per l'interpretazione dei contratti e non utilizzando quelli per l'interpretazione della legge. è allora compito primario dell'interprete ricostruire la comune volontà delle parti contraenti. A tal fine, egli deve anzitutto utilizzare il dato letterale. Se il dato testuale rimane equivoco, l'interprete deve aiutarsi con la storia del contratto, desumendo la comune intenzione delle parti sia dai temi dibattuti nella trattativa e dalle vicende che l'hanno contraddistinta, sia dal modo di redazione delle norme, sia dall'effettiva concreta attuazione, sia dal succedersi dei testi, nei vari anni, in rispondenza delle esigenze perseguite. è proprio in precipua funzione di tale ricerca che l'articolo 421 del codice di procedura civile attribuisce al giudice il potere di disporre d'ufficio la richiesta di informazioni ed osservazioni, sia scritte che orali, alle associazioni sindacali indicate dalle parti. La Cassazione è giunta a riconoscere rilievo prevalente al criterio della coerenza tra l'atto da interpretarsi ed i valori fondamentali del diritto vivente del lavoro. Ciò significa che, in ipotesi di ambiguità, il giudice dovrà conformare oggettivamente il loro contenuto a quei valori. Si tratta di un orientamento fortemente innovativo, suscettibile di allontanare del tutti i procedimenti interpretative delle regole codicistiche.
Fino al 2006 non era ammissibile il ricorso in Cassazione per violazione o falsa applicazione del contratto collettivo precorporativo del settore privato. L'interpretazione operata dal giudice di merito era censurabile in Cassazione solo indirettamente, vale a dire per violazione o falsa applicazione delle regole sancite dagli articoli 1362 e seguenti del codice civile. La ricorribilità diretta in Cassazione per violazione o falsa applicazione di norme dei contratti ed accordi collettivi nazionali di lavoro è stata prevista dal Decreto Legislativo numero 40 del 2 febbraio 2006, nell'ambito di un'ampia riforma del codice di procedura civile ed in particolare del procedimento innanzi alla Suprema Corte. Tale intervento legislativo colma il solco esistente tra la disciplina del contratto collettivo privato e quella del contratto pubblico privatizzato e soddisfa l'esigenza che la funzione di nomofiliachia della Cassazione contribuisca a dare soluzione uniforme anche alle questioni concernenti l'applicazione e l'interpretazione dei contratti collettivi. Le Sezioni Unite della Cassazione hanno ribadito la necessità della produzione del testo integrale del contratto collettivo, non essendo sufficiente, a pena di improcedibilità, l'estratto recante le singole disposizioni collettive su cui il ricorso si fonda.
Il contratto collettivo deve essere prodotto in giudizio dalla parte che lo invoca, non potendo trovare applicazione il principio secondo cui il giudice ha diretta conoscenza dei testi di legge. Il giudice può svolgere in proposito una funzione di supplenza. Va escluso che su questa norma possa trovare fondamento il potere del giudice di risolvere la vertenza applicando d'ufficio una clausola contrattuale che la parte non abbia invocato a fondamento della propria domanda. La disciplina del contratto collettivo rientra tra i fatti che la parte ha l'onere di allegare nel ricorso introduttivo del giudizio e sulla cui base solamente il giudice può risolvere la vertenza.
Sempre secondo la giurisprudenza, il principio di eguaglianza sancito dall'articolo 3 della Costituzione, in quanto inapplicabile ai rapporti tra privati, è inoperante nei confronti dell'autonomia collettiva; nè sono rinvenibili nell'ordinamento altre norme, costituzionali od ordinarie, che consentano di fondare un principio generale di parità di trattamento. Anche la pronuncia numero 103 del 1989 della Corte costituzionale non ha mutato i termini della questione sul versante contrattuale collettivo. Il contratto collettivo può in linea di massima disciplinare diversamente posizioni di lavoro uguali od analoghe, salvi naturalmente i limiti derivanti da divieti espressamente posti dal legislatore. Diverso è il discorso per il settore del pubblico impiego, dove sussiste in capo alla pubblica amministrazione, ai sensi dell'articolo 97 della Costituzione ed ora anche ex articolo 45 comma 2 del Decreto Legislativo numero 165/2001, e la giurisprudenza giunge a configurare, con riguardo alla contrattazione collettiva, un principio di razionalità, il cui mancato rispetto costituisce indice di illiceità o comunque di non meritevolezza del regolamento contrattuale. La giurisprudenza ritiene che per i contratti collettivi a tempo indeterminato deve sempre ammettersi la facoltà di recesso unilaterale, in quanto rispondente all'esigenza di evitare la perpetuità del vincolo. Soluzione opposta viene accreditata per i contratti a tempo determinato, che vincolano le parti sino alla scadenza. Non esiste un obbligo implicito di astenersi dal promuovere scioperi od azioni di pressione per conseguire una revisione della disciplina concordata. Per i contratti collettivi con termini di scadenza opera la disdetta, con ciò intendendosi quella manifestazione di volontà, portata a conoscenza della controparte tre mesi prima della scadenza, con cui i soggetti collettivi possono evitare il rinnovo tacito ed automatico del contratto.
Per il contratto collettivo di diritto comune deve ritenersi vigente il principio generale della libertà di forma, come ribadito dalle Sezioni Unite della Cassazione. Quest'ultima ha così superato il proprio precedente orientamento che sosteneva, sulla base della considerazione della funzione normativa del contratto collettivo e delle correlate esigenze di certezza e conoscibilità, la necessità della forma scritta ad substantiam.
L'efficacia obbligatoria del contratto collettivo.[]
La nostra dottrina fa usualmente discendere dalla stipulazione del contratto collettivo il dovere di influenza, il dovere cioè dei sindacati stipulanti di influire sugli associati affinchè conservino la parte normativa del contratto stesso.
Un dovere siffatto non esclude che il contratto individuale possa migliorare le condizioni pattuite a livello collettivo, dal momento che in tal caso non può parlarsi di violazione del contratto collettivo che rappresenta sempre un trattamento minimale, come tale sempre migliorabile.
Sul versante del sindacato dei datori di lavoro, il dovere d'influenza assume un contenuto assai più politico che giuridico, data anche la difficoltà di ricollegare alla sua violazione apprezzabili conseguenze di ordine risarcitorio.
Le clausole contenenti un esplicito impegno di pace sindacale ma purtroppo erano comparse, sporadicamente già negli anni '50, specie in contratti aziendali. Si diffusero poi nei contratti di categoria a partire dal 1962 - 1963, con l'avvento della contrattazione articolata.
In dottrina si è fatta distinzione tra obbligo relativo di tregua, concernente solo le materie compiutamente regolate nel contratto, ed obbligo assoluto di tregua, esteso anche alle materie rimaste estranee al contratto. Se qualche clausola pattuita aziendalmente può forse essere letta in chiave di tregua assoluta, le clausole inserite nei contratti di categoria normalmente prevedono solo l'impegno alla stabilità della disciplina concordata. Tali clausole hanno avuto un rilievo negli Accordi del gruppo Fiat del 2010 - 2011, nei quali l'impegno sindacale a non fare ricorso allo sciopero relativamente alle materie oggetto degli Accordi è accompagnato da un'esplicita sezione per il caso di violazione della tregua: perdita per il sindacato di alcuni diritti e vantaggi previsti dagli Accordi in questione.
La Suprema Corte ha affermato la validità della clausola stessa e la sua efficacia anche nei confronti dei singoli lavoratori. La Corte ha anzitutto sostenuto che tale impegno fosse giuridicamente configurabile, in forza di un preteso potere della Commissione interna di rappresentare tutti i dipendenti; ne ha al contempo asserito la legittimità.
Le clausole comunemente inserite nei contratti di categoria dal 1962 - 1963 non possono essere lette negil stessi termini. In esse l'impegno di tregua appare riferito solo al sindacato e non ai singoli lavoratori. Con la conseguenza che risulta superato il dubbio di una loro collisione con l'articolo 40 della Costituzione: il diritto di sciopero di cui sono titolari i singoli lavoratori non subisce alcuna limitazione.
Problema nodale finisce per rivelarsi quello del coinvolgimento, nell'impegno di pace, dei livelli sindacali inferiori. V'è motivo di dubitare che le clausole prevedano, nella formulazione corrente, tale coinvolgimento e non si limitino invece a sancire un semplice impegno di influenza sui livelli inferiori.
L'interrogativo è stato eluso da dottrina e giurisprudenza, le quali hanno dimostrato di voler affrontare il problema dei rapporti tra i diversi livelli organizzativi del sindacato da una diversa angolazione: non già quella della stabilità nel tempo della disciplina concordata, bensì quella della sua derogabilità o modificabilità in peggio.
Un tentativo di valorizzazione degli obblighi di pace, finalizzato ad un ambizioso disegno di riordine e ricompattamento del nostro sistema di relazioni industriali, è contenuto nell'accordo stipulato tra governo e parti sociali il 23 luglio 1993.
Esso introduce un obbligo esplicito di tregua per il periodo del rinnovo del contratto, durante il quale le parti non assumeranno iniziative unilaterali nè procederanno ad azioni dirette. In ipotesi di violazione dell'impegno assunto s prevede una sanzione economica che comporta, a carico della parte che vi ha dato causa, l'anticipazione o lo slittamento di tre mesi del termine a partire dal quale decorre l'indennità di vacanza contrattuale.
L'introduzione di una sanzione economica a presidio di una clausola di tregua costituisce senz'altro una novità per il nostro sistema sindacale. Soprattutto se si tiene conto del fatto che la sua applicazione, secondo l'accordo, coinvolge direttamente i singoli lavoratori, iscritti e non.
Accanto a questo obbligo di pace, l'accordo ne contiene altri due, meno espliciti e sforniti di sanzioni. Il primo è quello funzionalmente correlato alle clausole istitutive dei raccordi del livello contrattuale nazionale ed il livello aziendale, dal momento che
la contrattazione aziendale riguarda materie ed istituti diversi e non ripetitivi rispetto a quelli retributivi propri del contratto nazionale di categoria.
Il secondo obbligo è quello correlato alla predeterminazione della durata dei contratti: ed esso è assai debole, considerato che la clausola di tregua sopra descritta lascia del tutto scoperto il periodo della vigenza del contratto.
I contratti collettivi presentano numerose altre clausole obbligatorie, con cui i sindacati stipulanti assumono reciproci impegni di vario contenuto. La dottrina suole raggrupparle per tipo, distinguendo tra clausole istituzionali, clausole di amministrazione del contratto collettivo, clausole sulle competenze dei diversi livelli di contrattazione.
Le prime prevedono la costituzione di organismi od istituzioni con finalità diverse. Le seconde sono finalizzate alla composizione delle controversie collettive od individuali circa l'interpretazione e l'applicazione del contratto stesso. Le terze realizzano la specializzazione delle competenze assegnate ai diversi livelli contrattuali.
Negli anni '70 particolare rilievo hanno assunto le clausole appartenenti alla prima parte o parte politica dei contratti, ove sono previsti doveri di informazione a carico dei sindacati dei lavoratori e delle aziende in materia di investimenti, di occupazione, di innovazioni o trasformazioni organizzative e tecnologiche, di decentramento produttivo.
La demarcazione tra parte obbligatoria e parte normativa diviene incerta allorquando sono previsti impegni anche in capo ai datori di lavoro associati. Frequentemente questi impegni si traducono nell'impostazioni di limiti di carattere procedimentale nell'esercizio dei poteri del datore di lavoro. Tali limiti soddisfano ad un tempo l'interesse sindacale e l'interesse del singolo. Le clausole di questo tipo hanno allora natura bivalente e conseguentemente la loro violazione da parte del singolo datore di lavoro per un verso fonda una sua responsabilità contrattuale verso il sindacato e per altro verso determina l'invalidità del provvedimento nel quale l'esercizio del potere si è concretato.
L'Accordo interconfederale del 28 giugno 2011 ha previsto che i contratti collettivi aziendali approvati secondo criteri maggioritari possono definire clausole di tregua sindacale finalizzate a garantire l'esigibilità degli impegni contrattualmente assunti, ma ha ribadito in modo inequivocabile che tali clausole vincolano i soggetti collettivi e non i singoli lavoratori il cui diritto di far ricorso allo sciopero resta intatto.
Gli altri tipo di contratto collettivo.[]
I contratti corporativi rimasti in vigore.[]
Il Decreto Legislativo 23 novembre 1944 numero 369 dispone la permanenza in vigore, salve le successie modifiche, delle norme contenute nei contratti collettivi all'epoca vigente. La giurisprudenza ha riferito tale previsione anche alle modifiche introdotte dai contratti collettivi privatistici, escludendo, così, che i contratti corporativi avessero una superiorità di rango rispetto ai contratti collettivi di diritto comune.
La giurisprudenza ha poi comunemente invocato il principio secondo cui, quando ad una regolamentazione di carattere generale ne segue un'altra d carattere parimenti generali, questa si sostituisce alla precedente, ed ha quindi ritenuto che la disciplina del contratto corporativo deve intendersi sostituita integralmente da quella del successivo contratto collettivo di diritto comune ogni qualvolta esso è applicabile allo specifico rapporto di diritto.
La giurisprudenza ha continuato a considerare i contratti corporativi rimasti in vigore alla stregua di fonti del diritto in senso corporativo.
I contratti collettivi recepiti in decreto.[]
Con la Legge 14 luglio 1959 numero 741 il legislatore delegò il Governo ad emanare norme giuridiche, aventi forza di legge, al fine di assicurare minimi inderogabili di trattamento economico e normativo nei confronti di tuttu gli appartenenti ad una medesima categoria e stabilì che
nella emanazione delle norme il Governo dovrà uniformarsi a tutte le clausole dei singoli accordi economici e contratti collettivi, anche intercategoriali, stipulati dalle associazioni sindacali anteriormente all'entrata in vigore della presente legge.
Con l'articolo 1 della Legge 1° ottobre 1960 numero 1027 fu poi consentito al Governo di recepire anche i contratti stipulati nei dieci mesi successivi all'entrata in vigore della legge del 1959.
Alla Corte Costituzionale furono prospettati dubbi di legittimità dell'anzidetta normativa con riferimento a varie disposizioni della Costituzione.
La Corte riconobbe che il legislatore con la Legge numero 741 del 1959 aveva realmente inteso conferire ed aveva conferito efficacia generale ai contratti collettivi con forme e procedimento diversi da quelli previsti nell'articolo 39 e sottolineò al tempo stesso che una legge la quale
cercasse di conseguire questo medesimo risultato della dilatazione ed estensione, che è una tendenza propria della natura del contratto collettivo, a tutti gli appartenenti alla categoria alla quale il contratto si riferisce, in maniera diversa da quella stabilita dal precetto costituzionale, sarebbe palesemente illegittima.
La Corte ritenne che la Legge numero 741 del 1959 si sottraesse al contrasto con tale precetto costituzionale in ragione del suo significato e funzione di legge transitoria, provvisoria ed eccezionale, rivolta a regolare una situazione passata ed a tutelare l'interesse pubblico della parità di trattamento dei lavoratori e dei datori di lavoro: significato e funzione confermate dalla circostanza che la legge stessa, all'articolo 7 comma 2, limita l'efficacia delle norme delegate fino al momento in cui non siano intervenuti accordi e contratti validi per tutti gli appartenenti alla categoria.
La Corte ritenne che non si sottraesse al contrasto con l'articolo 39 e dichiarò illegittimo l'articolo 1 della Legge numero 1027 del 1060:
anche una sola reiterazione della delega toglie alla legge i caratteri della transitorietà e dell'eccezionalità e finisce col sostituire al sistema costituzionale un altro sistema rbitrariamente costituito dal legislatore e pertanto illegittimo.
La decisione della Corte ha travolto tutti i decreti emanati in base all'articolo 1 della legge del 1960, tra cui quello che aveva recepito il contratto dei metalmeccanici del 1959, appunto stipulato successivamente all'entrata in vigore della Legge numero 741 del 1959.
La legge del 1959 ed i decreti emanati in sua attuazione hanno sollevato numerose questioni interpretative. La stessa Corte costituzionale ne ha affrontato alcune.
La Corte costituzionale ha chiarito che
rientra nei compiti del giudice ordinario individuare i concreti confini della categoria, cui la legge delegata si riferisce, desumendoli dalla stipulazione collettiva e con riferimento alle associazioni stipulanti
sul presupposto che la legge numero 741 ha
conferito rilevanza giuridica non già a categorie identificabili secondo astratti concetti classificatori delle attività produttive e professionali, ma alle categorie, quali risultanti della spontanea organizzazione sindacale e dalla stipulazione collettiva
e che l'estensione di efficacia del contratto collettivo avviene all'interno della categoria quale da esso stesso individuata.
La giurisprudenza ha adottato soluzioni diverse a seconda dei diversi problemi volta a volta in evidenza. Attribuendo prevalenza al dato sostanziale del contenuto rispetto al dato formale dell'involucro la giurisprudenza ha affermato che
l'estensione erga omnes dell'obbligatorietà del contratto collettivo lascia immutata la natura propria dei patti contrattuali estesi e non vale come diretta legiferazione.
Di conseguenza il contratto collettivo recepito: deve essere allegato e prodotto in giudizio da chi lo invoca; non è soggetto alla regola dell'eguaglianza sancita dall'articolo 3 comma 1 della Costituzione; il contrasto tra le due clausole e le disposizioni della Costituzione può essere direttamente rilevato dal giudice ordinario con conseguente caducazione delle clausole difformi; il giudice ordinario può direttamente rilevare il sopravvenuto contrasto tra i minimi retributivi in esso previsti e l'articolo 26 della Costituzione, al fine di disapplicarli e di applicare in loro vece i minimi retributivi previsti dai successivi contratti collettivi di diritto comune, alla stregua dell'ordinamento giurisprudenziale formatosi anteriormente alla Legge numero 741 del 1949.
La Corte costituzionale, anche in ragione del gran numero di ordinanze di rimessione al riguardo pervenute sul suo tavolo, ha ritenuto di fugare qualsiasi perplessità in proposito con un intervento puntuale.
La giurisprudenza continua a considerare i decreti legislativi come atti aventi forza di legge allorchè afferma che vanno interpretati sulla base dei canoni fissati dall'articolo 12 delle disposizioni preliminari al codice civile per l'interpretazione della legge e che l'interpretazione operata dal giudice di merito è direttamente censurabile in cassazione per violazione o falsa applicazione di norme di diritto.
Inizialmente la giurisprudenza ha fatto un uso rigoroso del comma 3 dell'articolo 7 della Legge numero 741 del 1959, secondo cui alle norme contenute nei decreti legislativi
si può derogare, sia con accordi o contratti collettivi sia con contratti individuali, soltanto a favore dei lavoratori
ed ha quindi operato il raffronto fra decreti e contratti collettivi di diritto comune con riferimento alle singole clausole, conformemente all'orientamento correntemente seguito per il raffronto fra contratti e norme inderogabili di legge.
In seguito si è andata manifestando la tendenza a negare, anche sotto questo profilo, che l'estensione erga omnes abbia mutato la natura precettiva dei contratti per trattare la successione tra decreti e contratti collettivi privatistici alla stregua della successione nel tempo tra questi ultimi.
Quando non si è sentita di accantonare la previsione del comma 3 dell'articolo 7 della Legge numero 741 del 1959, la giurisprudenza ha comunque manifestato la propensione a svalutare i limiti da esso derivanti all'autonomia collettiva, operando il raffronto tra decreti e contratti privatistici con riferimento alla complessiva disciplina di ciascun istituto, se non addirittura con riferimento al loro contenuto globale. Il modivo addotto per quest'ultima scelta è che
nell'attuale realtà economico - sociale, i contratti collettivi che vengono di volta in volta successivamente stipulati sono, nel complesso delle loro rispettive disposizioni, progressivamente più favorevoli per i lavoratori.
Si tratta di un indirizzo interpretativo chiaramente diretto ad affrancare le scelte dell'autonomia sindacale dalle rigidità discendenti dai decreti legislativi; un indirizzo che presenta quindi la stessa valenza di politica del diritto di quello formatosi in epoca più remota con riguardo ai rapporti tra contratti privatistici e contratti corporativi.
Contratto collettivo ed usi aziendali.[]
Qualora le prassi aziendali venissero ricondotte agli usi normativi, costituenti fonti del diritto proprio ex articoli 1 e 8 comma 1 delle disposizioni preliminari al codice civile, si dovrebbe riconoscere loro un rango sovraordinato ai contratti collettivi privatistici. La giurisprudenza ha dovuto prendere atto che ben difficilmente una prassi aziendale può rispondere ai requisiti, assai rigorosi, dell'uso normativo, per il quale si richiede tradizionalmente una pratica uniforme e costante tenuta per lungo tempo dalle generalità degli interessi nella convinzione che essa sia obbligatoria in quanto ocnforme ad una regola giuridica.
La giurisprudenza ha allora cominciato a ricondurre i comportamenti stabilmente tenuti dal datore di lavoro nei confronti di tutti i propri dipendenti o d'una cerchia di essi agli usi contrattuali ed a spiegare la loro efficacia sui rapporti di laoro ora riguardandoli come proposte contrattuali ai singoli lavoratori da questi tacitamente accettate ora equiparandoli ad accordi collettivi aziendali.
Nel primo caso gli usi si inscrivono nei contratti di lavoro alla stregua dei patti individuali, e quindi per un verso possono derogare solo in melius ai contratti collettivi, per altro verso rimangono insensibili alle modificazioni delle pattuizioni collettive anche aziendali.
Nella seconda opzione ricostruttiva gli usi aziendali
agendo sul piano dei singoli rapporti individuali allo stesso modo e con la stessa efficacia di un contratto aziendale, devono ritenersi governati dal principio della successione temporale di più accordi aziendali.
Alla medesima logica possono essere ricondotti i regolamenti interni, adottati unilateralmente dal datore di lavoro. Essi acquista ormai la loro natura privatistica anche se emanati da enti pubblici economici, con l'applicazione acquistano carattere pattizio e nei rapporti con le vicende delle contrattazioni collettive sono quindi assimilabili agli usi.
Il contratto collettivo nel pubblico impiego.[]
Una riforma ventennale: la privatizzazione del pubblico impiego.[]
Fino agli inizi degli anni '60 il trattamento normativo del pubblico impiego era determinato unicamente per legge o per regolamento, ma conformandosi largamente al pressing continuo esercitato sul Parlamento e sul Governo da un apparato burocratico eterogeneo e frammentario. Non esisteva un movimento sindacale in grado di controbilanciare la forte deriva corporativa di quell'apparato.
Era la stagione delle leggine, con a ricaduta un'autentica giungla normativa e retributiva, da cui le Confederazioni cercheranno di uscire nel corso degli anni '60 con un approccio comune basato su un sempre più esplicito e formale recepimento nel settore del lavoro pubblico del metodo contrattuale praticato da sempre in quello del lavoro privato Il convincimento sotteso era che il punto critico del sistema Paese restava sempre quello di un'amministrazione elefantiaca ed inefficiente; e che non era possibile razionalizzarla ed ammodernarla, senza cambiare radicalmente la disciplina dei dipendenti pubblici a cominciare dall'introduzione di un'autentica e genuina contrattazione collettiva.
Alla fine degli anni '60 prese avvio l'auspicato processo di recepimento legislativo della contrattazione come fonte regolatrice anzitutto del trattamento economico in diversi settori del pubblico impiego. Questo processo trovò il suo sbocco sistematico nella Legge 29 marzo 1983 numero 93, cosiddetta legge quadro sul pubblico impiego.
Essa non comporta una netta soluzione di continuità rispetto al passato, perchè la disciplina non cambiava di sostanza, per la fonte, per la natura del rapporto di lavoro, per la giurisdizione. D'allora in poi la fonte sarebbe risultata diversa a seconda che la materia interessata ricadesse nell'elencazione riservata alla legge statale od attribuita ad una decretazione presidenziale/legislazione regionale di recepimento di una negoziazione collettiva regolata negli attori, nei procedimenti, nei contenuti.
La legge quadro si sarebbe rivelata assolutamente incapace di realizzare la finalità perseguita di un'amministrazione resa più trasparente ed efficiente con corresponsabilizzare le associazioni sindacali tramite una negoziazione priva di una sua chiara area di competenza e di una sua propria efficacia. Sarebbe bastato un decennio per farne emergere le deficienze: la corrispondenza sfrenata tra leggi ed accordi collettivi recepiti in decreti, con reciproca invasione di campo, sì da aversi un fiorire di leggine e di negoziati altamente politicizzati; la cronica inossrtvanza dei termini previsti per i rinnovi degli accordi; la perpetuazione di regole e prassi obsolete; la scarsa collaborazione della giustizia amministrativa.
Alla fine degli anni '80, l'alternativa che si presentava era fra tornare indietro sulla strada di una pubblicizzazione tutta chiusa dentro la legge; o procedure avanti su quella di una privatizzazione aperta ad una contrattualizzazione autentica. Se quest'ultima fu la consapevole e comprensibile scelte delle tre grandi Confederazioni, espressa in una bozza predisposta da una commissione di esperti, la sua fortuna dipese largamente dalla crisi finanziaria affrontata dai governi tecnici dei primi anni '90.
La riforma ebbe il via libera dall'articolo 2 dalla Legge delega numero 421/1992, per la sua asserita capacità di contribuire a contenere la spesa ed a migliorare l'efficienza della pubblica amministrazione. Solo quattro mesi dopo avrebbe trovato piena attuazione nel Decreto Legislativo numero 29/1993, intitolato razionalizzazione dell'organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, destinato a costituire il testo di riferimento della successiva decretazione correttiva emanata ai sensi della prima delega, nonchè della seconda, di cui all'articolo 11 comma 4 della Legge numero 59/1997.
Per avere un'idea precisa della preferenza accordata alla contrattazione collettiva, va ricordato che le viene attribuita una forza del tutto peculiare, non per nulla tacciata di incostituzionalità. Per la fase transitoria, era titolata a rendere inapplicabile la previgente disciplina pubblicistica. A sua volta, per la fase a regime, era legittimata prevalre su norme di legge e di regolamento intervenute a disciplinare il rapporto di lavoro in sua vece.
La riforma non ha mancato di suscitare un'ampia e vivace opposizione nell'amministrazione, nonchè nella dottrina e nella giustizia amministrativa, che l'hanno tacciata di rovesciare tutta una consolidata tradizione pubblicistica, fatta propria dalla stessa Corte costituzionale. La Corte ha elaborato tutta una giurisprudenza favorevole alla privatizzazione.
Non sarebbe rilevante l'articolo 97 comma 1 per cui
i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge
perchè non contiene alcuna riserva assoluta di legge, sì da rimettere alla discrezionalità del Parlamento la messa a punto di un'equilibrata combinazione di legge e contrattazione collettiva, con in vista un buon andamento, a tutt'oggi estremamente sacrificato, assai più che un'imparzialità, non di rado elevata ad alibi di inerzia e di inefficienza. E, neppure, sarebbe determinante l'articolo 39 comma 2 e seguenti, per cui i contratti collettivi possono divenire efficaci erga omnes solo se stipulati nei modi ivi previsti, ma rimasti del tutto inattuati, perchè non concerne gli accordi collettivi di cui alla riforma, efficaci nei confronti degli appartenenti alle relative aree dirigenziali e comparati, non ex se ma ex lege, per l'obbligo imposto alle amministrazioni destinatarie di osservarli in tutto e per tutti.
La Legge numero 133/2008 anticipa quella destinata a passare alla storia come riforma Brunetta, che rappresenta per ora la tappa ultima di una vicenda iniziata com la legge del 1992, peraltro non senza critiche e proposte di un'ulteriore revisione.
Se pur la Legge Delega faceva prevedere un'ipertrofia regolativa, nondimento impressioona la dimenione assunta dal Decreto Legislativo numero 150/2009, ricco di ben 74 articoli, suddivisi in cinque Titoli, che già di per sè testimonia l'ormai definitiva primizia assegnata alla legge rispetto ad una contrattazione che avrebbe fallito la sua missione di restituire trasparenza ed efficienza alla pubblica amministrazione.
Ri-legificazione non equiale affatto alla ri-pubblicazione, perchè resta del tutto ferma la scelta iniziale per la privatizzazione, addirittura enfattizzata come funzionale ad una diffusione di una vera e propria cultura d'impresa: ma c'è più legge e meno contrattazione collettiva. La più incisiva e pervasiva presenza della legge è vista come una difesa contro un'espansione impronta della contrattazione collettiva, rivelatasi tale da intaccare e snaturare la stessa organizzazione.
Tale ri-legificazione accresce ulteriormente la specificità del diritto sindacale dell'impiego pubblico privatizzato; cui corrisponde una legislazione del rapporto di lavoro individuale limitata al solo settore privato, dalla riforma Biagi alla riforma Fornero.
Il decreto legislativo è articolato su due parti fisicamente e logicamente distinte, anche se correlate: la prima, destinata alla misurazione/valutazione e premiazione della performance, individuale e collettiva, con una ricerca tanto monocorde quanto discutibile della metodologia applicabile ad un'impresa, rimane consegnata allo stesso decreto; mentre la seconda, dedicata alla dirigenza, all'organizzazione degli uffici ed alla modalità, alla contrattazione collettiva nazionale ed integrativa, alle sanzioni disciplinari ed alla responsabilità dei dipendenti, finisce per essere incorporata nel TU del 2001, modificandone numerose disposizioni.
La contrattazione collettiva: ambiti e livelli.[]
Oggi l'ambito in parola rimane sostanzialmente quello delineato inizialmente, esteso di massima ai dipendenti, dirigenti esclusi, di
tutte le amministrazioni dello Stato, ivi compresi gli istituti e scuole di ogni ordine e grado e le istituzion educative, le aziende e le amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, le regioni, le province, i comuni, le comunità montane e loro consorzi ed associazioni, le istituzioni universitarie, gli istituti autonomi case popolari, le camere di commercio, industria, artigianato ed agricoltura e loro associazioni, tutti gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali, le amministrazioni, le aziende e gli enti del Servizio Sanitario Nazionale, l'Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN) e le Agenzie di cui al decreto legislativo 30 luglio 1999 numero 300.
Le regioni non sono tenute ad un'applicazione integrale della disciplina, costituendo le disposizioni del TU, per quelle statuto ordinario, principi fondamentali ai sensi dell'articolo 117 della Costituzione; e, per quelle a statuto speciale, ivi comprese le province autonome di Trento e Bolzano, norme fondamentali di riforma economico - sociale.
Rimangono escluse alcune categorie particolari di dipendenti pubblici, in ragione delle funzioni od attività svolte.
Resta pubblica la parte costituita dalla macro organizzazione, cioè le linee fondamentali di organizzazione degli uffici gli uffici di maggior rilevanza ed i modi di conferimento della titolarità dei medesimi le dotazioni organiche, che tocca alle amministrazioni determinare secondo principi generali fissati da disposizioni di legge e, sulla base dei medesimi, mediante atti organizzativi secondo i rispettivi ordinamenti. Diventa privata la parte rappresentata sia dalla macro organizzazione che dalla disciplina del personale, data l'interconnessione esistente fra l'una e l'altra, cioè l'organizzazione degli uffici e la gestione dei rapporti di lavoro, che spetta agli organi presposti alla gestione, cioè ai dirigenti, definire in via esclusiva con la capacità ed i poteri del privato datore di lavoro secondo le disposizioni del capo I, titolo II, del libro del codice civile e delle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell'impresa, nonchè della contrattazione collettiva di cui al titolo III.
Nella parte resa privata la legge si riallarga, riservando la sua diretta determinazione od all'autonoma decisione della dirigenza tutta l'area prima occupata a ragione o torto dalla contrattazione collettiva, con l'esplicita previsione della nullità, seguita da sostituzione automatica ai sensi degli articoli 1339 e 1419 comma 2 del codice civile, della disciplina contra legem.
Non sembra che le modifiche apportate dall'articolo 2 commi 17, 18 e 19 del Decreto Legge numero 95/2012 cambino un gran che. Si deve sottolineare come non si riallarghi l'area di manovra della contrattazione laddove si parla solo di informazione come nel comma 19, che prevede
comunque dovuta l'informazione alle organizzazioni sindacali su tutte le materie oggetto di partecipazione previste dai vigenti contratti collettivi.
Più complesso appare il discorso con riguardo ai commi 17 e 18, lettera B. In forza del comma 17 viene emendato il testo dell'articolo 5 comma 2 TU, col porre al posto delle parole fatta salva la sola informazione sindacale quelle date da
fatti salvi la sola informazione ai sindacati per le determinazioni relative all'organizzazione degli uffici ovvero, limitatamente alle misure riguardanti i rapporti di lavoro, l'esame congiunto, sempre ove previsti nei contratti di cui all'articolo 9.
Si parte con dare per scontata la possibilità di distinguere la macro organizzazione dalla disciplina dei rapporti, per poi prevedere per l'una la sola informazione e per l'altra l'esame congiunto.
In ragione del comma 18 lettera b si introduce nell'articolo 6 comma 1 TU, dopo il primo periodo, un procedimento per il caso di proceddi di riorganizzazione degli uffici comportanti l'individuazione di esuberi o l'avvio di processi di mobilità:
le pubbliche amministrazioni sono tenute a darne informazione, ai sensi dell'articolo 33, alle organizzazioni sindacali rappresentative del settore interessato ed ad avviare con le stesse un esame sui criteri per l'individuazione degli esuberi o sulle modalità per i processi di mobilità.
A compensare tanta esclusione a carico della contrattazione collettiva permane la riserva esplicita a suo favore per la definizione del trattamento economico fondamentale ed accessorio, secondo una collaudata suddivisione del livello contrattuale, per cui è competente per il fondamentale il contratto collettivo di comparto o di area dirigenziale, con l'obiettivo precipuo di difendere il potere di acquisto dello stipendio adeguandolo il più possibile al tasso di inflazione assunto a referente; e per l'accessorio, il contratto collettivo integrativo, con lo scopo preminente di premiare la performance organizzativa ed individuale, ferma l'esplicita proibizione di erogare trattamenti economici accessori che non corrispondano alle prestazioni effettivamente rese. Riserva esplicita che non permette di configurare a carico della controparte datoriale qualcosa di più dell'obbligo a trattare, cioè anche uno a contrarre.
Rimane aperto il problema, di che cosa succeda in caso di conclusione negativa della trattativa. Per il livello di comparto sembra da escludersi che ne consegua a favore dell'ARAN una libertà di provvedere da sola in via generale e definitiva, come conferma a contrario l'esplicita previsione dell'articolo 47 bis, comma 1, peraltro relativa al solo trattamento economico.
Per il livello integrativo il discorso è più complesso, perchè l'articolo 40 comma 3 bis prescrive che, alla scadenza del termine fissato dalla contrattazione nazionale per lo svolgimento della sessione negoziale in sede decentrata, entrambe le parti riassumono le rispettive prerogative e libertà di iniziativa e decisione; mentre il successivo comma 3 ter pare contraddirlo, preedendo che l'amministrazione interessata non può procedere da sola in via definitiva, ma solo provvedere, in via provvisoria, sulle materie oggetto del mancato accordo, fino alla successiva sottoscrizione.
L'articolo 44 comma 1 TU che, mentre elimina
ogni forma di rappresentanza, anche elettiva, del personale nei consigli di amministrazione nonchè nelle commissioni di concorso
abilita la contrattazione collettiva nazionale a definire
nuove forme di partecipazione delle rappresentanze del personale ai fini dell'organizzazione del lavoro.
Per quanto l'articolo 40 comma 3 TU affermi che la
contrattazione collettiva disciplina, in coerenza con il settore privato, la struttura contrattuale, i rapporti fra i diversi livelli e la durata dei contratti collettivi nazionali ed integrativi
tale coerenza è venuta progressivamente meno, nonostante la ricezione di parte della disciplina prevista come comune dall'Intesa Governo/parti sociali del 30 aprile 2009.
è evidente una perdita di rilievo interconfederale, perchè ormai sono previsti solo gli accordi quadro che individuano i comparti e le aree dirigenziali o regolano istituti comuni a più comparti.
In funzione di un accorpamento destinato a facilitare i rinnovi ed ad omogeneizzare i trattamenti, gli accordi quadro possono definire
fino ad un massimo di quattro comparti di contrattazione collettiva nazionale, cui corrispondono non più di quattro separate aree per la dirigenza.
Il che aumenta il pericolo di mortificare tratti differenziali importanti fra amministrazioni e categorie di personale, solo attenuato dall'aver previsto come obbligatoria un'apposita sezione contrattuale di un'area dirigenziale per la dirigenza del ruolo sanitario del Servizio sanitario nazionale e la costituzione nei contratti di comparto di apposite sanzioni contrattuali per specifiche professionalità. Al tempo stesso, accentua il rischio di penalizzare i sindacati minori, esposti al rischio di non risultare più rappresentativi in comparti ed aree dirigenziali ampliati.
Il blocco della contrattazione collettiva operato dalla legge finanziaria 2010 per il triennio 2010 - 2012 ha fatto sì che l'accordo quadro di accorpamento dei comparti e delle aree dirigenziali sia a tutt'oggi ancora in itinere.
Ai sensi dell'accordo 11 giugno 2007 i comparti erano: Agenzie fiscali; Enti pubblici non economici; Istituzioni di alta formazione e specializzazione artistica e musicale; Istituzioni ed enti di ricerca e sperimentazione; Ministeri; Presidenza del Consiglio dei Ministri; Regioni ed autonomie locali; Servizio sanitario nazionale; Scuola; Università; ai sensi dell'accordo 1° febbraio 2008 le aree dirigenziali, che possono essere una o due per lo stesso comparto oppure una per più di un comparto, erano: Area I, Ministeri; Area II, Regioni ed Enti locali; Area III, Sanità, dirigenza sanitaria, professionale, tecnica, amministrativa; Area IV, Sanità, dirigenza medico - veterinaria; Area V, Scuola ed Istituzioni di alta formazione e specializzazione artistica e musicale; Area VI, Agenzie fiscali ed Enti pubblici non economici; Area VII, Università ed Istituzioni ed enti di ricerca e sperimentazione; Area VIII, Presidenza del Consiglio, coi rispettivi contratti nazionali scaduti ma bloccati per legge.
Per l'individuazione delle prestazioni indispensabili da assicurare in caso di scioperi nei servizi pubblici essenziali l'articolo 2 della Legge numero 146/1990 rinvia agli accordi di cui al decreto legislativo 3 febbraio 1993 numero 29, da intendersi i contratti di comparto e di area dirigenziale; per la composizione dell'organismo di rappresentanza unitaria del personale e le specifiche modalità delle elezioni l'articolo 42 comma 4 TU richiama gli appositi accordi tra l'ARAN e le confederazioni od organizzazioni sindacali rappresentative ai sensi dell'articolo 43, da intendersi sia gli accordi quadro che i contratti di comparto e di area dirigenziale; ed, infine, per la determinazione dei limiti massimi delle aspettative e dei permessi sindacali, l'articolo 50 comma 1 TU contempla un apposito accordo tra l'ARAN e le confederazioni sindacali rappresentative ai sensi dell'articolo 43.
Il livello integrativo risulta, per le amministrazioni articolate su una sede centrale e su sedi periferiche, duplice, un primo per tutte ed un secondo per le singole sedi; mentre, per le altre non articolate, unico.
Il crescente sfavore per una contrattazione collettiva integrativa che travalicava ogni limitazione di competenza e di spesa ha trovato nella riforma solo la sua ultima e compiuta testimonianza, senza finalizzarla alla realizzazione in via indiretta ed immediata di un interesse pubblico. La prevista finalità di assicurare adeguati livelli di efficienza e di produttività dei servizi va letta in stretta connessione con quella incentivazione dell'impegno e della qualità della performance ai sensi dell'articolo 45 comma 3.
Secondo il modello, mutuato dal settore privato, di un sistema contrattuale articolato, il primato spetta al livello nazionale che definisce le materie e le procedure negoziali di quello integrativo.
Il tutto è accompagnato dall'espresso divieto per le pubbliche amministrazioni di sottoscrivere contratti collettivi integrativi
in contrasto con i vincoli e con i limiti risultanti dai contratti collettivi nazionali ovvero che comportano oneri non previsti negli strumenti di programmazione annuale e pluriennale.
Il fatto di garantire il primato del livello nazionale con l'efficienza reale è un unicum nel diritto sindacale italiano. Esso rimane senza riscontro nel settore privato, dove è possibile rifarsi solo all'efficienza obbligatoria, costituita dall'obbligazione delle parti stipulanti a far prevalere il contratto nazionale su quello integrativo, peraltro priva di alcuna sanzione effettiva, sì da conservare una mera rilevanza politica.
A corredo preliminare di ogni contratto integrativo le pubbliche amministrazioni devono redigere una relazione tecnico - finanziaria ed una illustrativa, che deve essere sottoposta agli organi di controllo interno.
è prevista tutta un'ampia ed articolata attività di trasmissione, elaborazione, pubblicizzazione dei dati relativi alla contrattazione integrativa. Le amministrazioni statali, gli enti pubblici non economici, gli enti e le istituzioni di ricerca con un oragno superiore a 200 unità devono comunicare oltre che al CNEL, anche all'ARAN il testo contrattuale sottoscritto con le due relazioni allegate, che è tenuta a presentare annualmente al Dipartimento della Funzione Pubblica, al Ministero dell'economia e delle finanze ed ai comitati di settore un rapporto circa l'effettività e congruenza della ripartizione delle materie fra legge e contrattazione collettiva, nazionale ed integrativa; le amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1 comma 2 TU devono deviare ogni anno al Ministero dell'economia e delle finanze informazioni certificate dagli organi di controllo interno sui costi della contrattazione integrativa, trasmesse alla Corte dei conti in vista della verifica di eventuali responsabilità e della predisposizione del referto sul costo del lavoro; le amministrazioni pubbliche sono obbligate a pubblicare sui propri siti istituzionali i contratti integrativi stipulati, con le relazioni allegate, nonchè le informazioni di cui all'articolo 40 bis comma 3 TU.
I soggetti della contrattazione collettiva.[]
Un'assoluta novità è stata rappresentata fin dalla fase iniziale dalla creazione di una controaprte unitaria per esercitare a livello nazionale, in base agli indirizzi ricevuti dai Comitati di settore ogni attività relativa alle relazioni sindacali, alla negoziazione dei contratti collettivi ed all'assistenza delle pubbliche amministrazioni.
L'ARAN ha personalità pubblica, con un'autonomia organizzativa e contabile nei limiti del proprio bilancio, alimentato principalmente da contributi posti a carico delle singole amministrazioni in ragione del numero dei dipendenti; e si avvale di un proprio organico, assunto con concorso pubblico o con contratto a tempo determinato, nonchè di personale proveniente da altre amministrazioni, comandato o collocato fuori ruolo.
I suoi organi sono costituiti da un Presidente e da un collegio di indirizzo e controllo, costituito da quattro componenti, di cui due nominati con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro della pubblica amministrazione e l'innovazione e del Ministro dell'economia e delle finanze e delle finanze e gli altri due, rispettivamente dall'ANCI e dall'UPI e dalla Conferenza delle Regioni e delle pronvince autonome. Il collegio coordina la strategia negoziale e ne assicura l'omogeneità, con deliberazioni assunte a maggioranza su proposta del Presidente.
La scelta del Presidente deve avvenire tra esperti in materia di econimia del lavoro, diritto del laoro, politiche del personale e strategia aziendale; e quella dei quattro componenti tra esperti di riconosciuta competenza in materia di relazioni sindacali e di gestione del personale. Tali formule generiche si sono prestate a coprire selezioni sempre meno qualificate in termini di effettiva professionalità ed esperienza, dettate da ragioni pratiche - sindacali, quando non addirittura clientelari.
La carica di Presidente è incompatibile con qualsiasi altra attività professionale; mentre la partecipazione al collegio di indirizzo e controllo è vietata per
persone che rivestano incarichi pubblici elettivi o cariche in partiti politici ovvero che ricoprano od abbiano ricoperto nei cinque anni precedenti alla nomina cariche in organizzazioni sindacali, con estensione a qualsiasi rapporto di carattere professionale o di consulenza con le predette organizzazioni sindacali o politiche.
L'ARAN garantisce la contrattazione nazionale, a cominciare dall'ammissione al tavolo delle trattative delle organizzazioni sindacali rappresentative ed a finire con la sottoscrizione dell'ipotesi di accordo approvata da una maggioranza di tali organizzazioni calcolata secondo la formula prevista dalla legge, Può anche prestare assistenza alle amministrazioni per quella integrativa, se del caso con la costituzione di sue delegazioni su base regionale o pluriregionali. Le regioni a statuto speciale e le province autonome possono scegliere per la contrattazione collettiva di loro competenza fra il ricorso all'ARAN ed il varo delle proprie agenzie tecniche.
L'ARAN gestice la contrattazione collettiva di comparto e di area dirigenziale sulla base di indirizzi decisi da Comitati di settore, espressi dalle istanze associative e rappresentative delle pubbliche amministrazioni, ma formalmente del tutto autonomi.
In corrispondenza al ricompattamento dei contratti di comparto e di area dirigenziale nel numero massimo di quattro, c'è una riduzione dei Comitati di settore. Ne è previsto un primo creato nell'ambito della Conferenza delle Regioni, che esercita con riguardo ad uno dei comparti previsti i poteri di indirizzo per le regioni ed i relativi enti dipendenti, nonchè per le amministrazioni del Servizio sanitario nazionale che giustificano la partecipazione di un rappresentante del Governo, designato dal Ministro del lavoro. Ne è contemplato un secondo costituito nell'ambito dell'Associazione nazionale dei comuni italiani, dell'Unione delle province italiane e dell'Unioncamere, che svolge con rispetto ad uno dei comparti individuati i poteri di indirizzo per i dipendenti degli enti locali, delle Camere di commercio e dei segretari comunali e provinciali. Ne è introdotto un terzo, monocratico e residuale, perchè è il Presidente del Consiglio ad operare come tale per tutte le altre amministrazioni, tramite il Ministero per la pubblica amministrazione e l'innovazione, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze.
Per prendere parte ad una trattativa di comparto o di area dirigenziale occorre essere un'organizzazione sindacale rappresentativa. è stato così fin dall'inizio, perchè non poteva prescindersi da una selezione delle controparti negoziali condotta secondo una regola obiettiva e trasparente, certo per soddisfare quel dovere di imparzialità consacrato nel testo costituzionale, ma pure per giustificare l'efficacia generale attribuita alla contrattazione collettiva.
La regola adottata per qualificare un'organizzazione sindacale come rappresentativa non è prevalentemente qualitativa come nel settore privato, dove oggi viene utilizzata di massima dalla legge quella di comparativamente più rappresentativa; ma esclusivamente quantitativa, sì da renderne l'applicazione oggettiva e certa.
Le organizzazioni sindacali rappresentative possono essere o meno affiliate a confederazioni, che escono alquanto ridimensionate dalla lunga evoluzione legislativa. Sono titolate a concludere gli accordi quadro, gli appositi accordi sulle rappresentanze unitarie del personale e sui limiti massimi delle aspettative e dei permessi sindacali; nonchè a partecipare alla contrattazione collettiva nazionale. E, comunque, lo sono in base ad una legittimazione non originaria, ma derivata, perchè devono contare, per la prima ipotesi, l'affiliazione in almeno due comparti o due aree dirigenziali di organizzazioni rappresentative; e per la seconda, l'affiliazione nel comparto od area dirigenziale interessata di un'organizzazione rappresentativa ammessa alla trattativa.
è la contrattazione collettiva nazionale a determinare i soggetti e le procedure di quella integrativa, in conformità all'articolo 40 comma 3 bis e seguenti, ma pur sempre nel rispetto dell'articolo 42 comma 7, relativo alle rappresentanze unitarie del personale.
Il procedimento per la contrattazione collettiva nazionale.[]
Qui è la legge a disciplinare in dettaglio un vero e proprio procedimento formativo del contratto nazionale con un significativo coinvolgimento pubblico. Ricostruendolo nel suo svolgimento, rinviene il suo momento iniziale negli atti di indirizzo emanati dai Comitati di settore prima di ogni rinnovo contrattuale e, comunque, di un qualsiasi altro diverso negoziato.
Dell'andamento della trattativa l'ARAN informa costantemente il Governo ed i Comitati di settore, che, peraltro, possono assistervi con propri rappresentanti. Una volta raggiunta un'ipotesi di accordo approvata da una maggioranza delle organizzazioni sindacali partecipanti
che rappresentino nel loro complesso almeno il 51% come media fra dato associativo e dato elettorale nel comparto o nell'area contrattuale, od almeno il 60% del dato elettorale nel medesimo ambito.
Se la maggioranza qualificata richiesta per la sottoscrizione si giustifica con l'efficacia generale della contrattazione nazionale, la duplice formula utilizzabile alternativamente per calcolarla si spiega con l'eventuale difficoltà di poter disporre del dato associativo, sì da dover ripiegare sul solo dato alettorale, peraltro elevandolo nella percentuale.
In presenza di pareri associativi, l'ARAN trasmette la qualificazione dei costi contrattuali alla Corte dei conti cui spetta certificare l'attendibilità dei costi qualificanti e la loro compatibilità con gli strumenti di programmazione e di bilancio. Se la certificazione è positiva, il Presidente dell'ARAN sottoscrive definitivamente il contratto; s è negativa, il Presidente dell'ARAN, d'intesa con il competente comitato di settore, provvede alla riapertura della trattativa ed alla sottoscrizione di una nuova ipotesi di accordo con conseguente ripresa dell'intera procedura di certificazione.
Si è voluto mutuare dal privato questa espressione non utilizzata nel TU; ma sotto l'anonima rubrica Tutela retributiva per i dipendenti pubblici, l'articolo 47 bis si articola su due commi. Il comma 1 prevede quell'erogazione in via provvisoria degli aumenti degli stipendi previsti dalla legge finanziaria per i rinnovi dei contratti nazionali, decorsi inutilmente sessanta giorni dalla sua entrata in vigore; mentre il comma 2 introduice qualcosa di molto simile all'indennità di vacanza contrattuale.
Natura ed efficacia del contratto collettivo.[]
Non v'è dubbio alcuno che il legislatore si proponesse fin dall'inizio un nuovo sistema delle fonti costruito a ricalco di quello del settore privato, cioè basato sulla legislazione del lavoro e sulla contrattazione collettiva di diritto comune. Ma un ricalco praticabile solo alla lontana, per il persistente carattere pubblico del datore di lavoro, che lo vincolava all'osservanza di rigidi vincoli finanziari e lo obbligava all'applicazione di trattamenti comuni ed omogenei per tutti i suoi dipendenti.
Il che si è riflesso nella previsione di procedimenti contrattuali con incorporati controlli interni ed esterni sempre più pervasivi e nell'attribuzione ai contratti collettivi di effetti generali.
Sia l'accertamento pregiudiziale, sia il ricorso in Cassazione per tali motivi sono stati generalizzati dall'articolo 420 bis del codice di procedura civile e rispettivamente dall'articolo 360 comma 1 numero 3 del codice di procedura civile.
Se si deve stare al dato legislativo, confortato dal giudizio ormai consolidato del Giudice delle leggi, i contratti collettivi sono certamente di diritto privato: come tali non possono nè perseguire direttamente ed immediatamente interessi pubblici, nè produrre vere e proprie norme giuridiche.
Il problema dei problemi era come assicurare al contratto collettivo quell'efficacia generale richiesta dalla necessità per un'amministrazione pubblica di applicare la stessa disciplina a tutta la sua forza lavora, senza tradirne la natura privatistica e senza entrare in contrasto con l'articolo 39 comma 3 e seguenti della Costituzione.
Ora si preferisce parlare di efficacia generale in luogo di efficacia erga omnes, perchè quest'ultima espressione è troppo evocativa dell'articolo 39 comma 2 e seguenti della Costituzione. Non c'è alcuna differenza sostanziale, perchè trattasi pur sempre di un'effiacia estesa all'intera unità contrattuale interessata, a prescindere dalla regola aurea privatistica della rappresentanza volontaria: per la contrattazione nazionale tutte le amministrazione e tutti i dipendenti del comparto od area dirigenziale; per la contrattazione integrativa, l'amministrazione od una sua sede e tutti i lavoratori ivi occupati.
La Corte costituzionale ha considerato compatibile l'efficacia generale con l'articolo 39 comma 2 e seguenti della Costituzione, privilegiando la terza misura: tale efficacia sarebbe legittima, perchè riconducibile in via diretta alla legge stessa, laddove vincola le pubbliche amministrazioni a rispettare gli obblighi assunti contrattualmente.
La Corte è consapevole che la soluzione proposta è parziale, perchè vale per le pubbliche amministrazioni, ma non per i dipendenti. Per renderla completa, sostiene che i dipendenti risulterebbero obbligati in forza delle clausole di rinvio ai contratti collettivi contenute necessariamente nei contratti individuali sottoscritti al momento dell'assunzione, ai sensi dell'articolo 2 comma 3 del Decreto Legislativo numero 165/2001.
Il dettato dell'articolo 2 comma 3 TU sembra riferibile anche al contratto indiiduale; ciò non toglie che questo sia di massima condannato a rivestire un ruolo solo costitutivo, non anche regolativo: crea i rapporti ma non li disciplina.
Proroga e sospensione, interpretazione autentica, accertamento pregiudiziale sull'efficacia, validità ed interpretazione dei contratti collettivi.[]
Vi sono alcuni istituti che costituiscono altrettante peculiarità rispetto al diritto civile ed al diritto processuale, dovute alla necessità di far rispettare la previsione di spesa, tramite proroga o sospensione dei contratti collettivi; nonchè all'opportunità di accertare con tempestività e certezza l'interpretazione dei contratti collettivi, rimettendola alle stesse parti o permettendone un accertamento pregiudiziale in Cassazione.
Secondo l'articolo 47 comma 3 TU i contratti collettivi devono essere correlati da prospetti contenenti l'indicazione degli oneri nonchè l'indicazione della copertura complessiva per l'intero periodo di validità contrattuale. Aggiunge che tali prospetti servono ad attivare apposite clausole debitamente previste ed inserite, che rendono possibile
prorogare l'efficacia temporale del contratto ovvero sospenderne l'esecuzione parziale o totale in caso di accertata esorbitanza dai limiti di spesa.
L'attivazione della clausola dovrebbe essere rimessa ad entrambe le parti dei contratti collettivi, che dal contesto risulterebbero essere i nazionali, con l'ulteriore questione relativa alla procedura applcabile.
Stando all'articolo 49 TU qualora
insorgano controversie sull'interpretazione dei contratti collettivi, le parti che li hanno sottoscritti possono incontrarsi per definire consensualmente il significato delle clausole controverse.
Devono attivare e percorrere tutto il procedimento generale previsto dall'articolo 47 per poter mettere capo all'accordo di interpretazione autentica.
Non è qui il problema, ma nel disposto per cui l'accordo sostituisce la clausola in questione fin dall'inizio del contratto, con un'efficacia retroattiva che lo equiparerebbe ad una transazione collettiva.
Una volta arata la versione attuale, la Cassazione s'è fatta carico di correggerla: perchè l'accordo di interpretazione autentica sia valido non è sufficiente l'assenso di organizzazioni sindacali capaci di raggiungere complessivamente le maggioranze previste dall'articolo 47 TU; ma è necessario l'avallo di tutte le firmatarie del contratto originario.
L'articolo 64 TU prevede un peculiare accertamento pregiudiziale. Il giudice chiamato a decidere una controversia indiiduale ricadente nella sua giurisdizione ai sensi dell'articolo 63 TU, che richieda la soluzione in via preliminare di una questione concernente l'efficacia, la validità, l'interpretazione di un contratto od accordo collettivo nazionale, emana un'ordinanza, ne investe l'ARAN, perchè verifichi se sia possibile stipulare un accordo di interpretazione autentica o di modifica del testo contrattuale. Se tale accordo non viene raggiunto, il giudice pronuncia una sentenza parziale sulla sola questione pregiudiziale, che può essere impugnata, saltando l'appello, solo con ricorso immediato in Cassazione.
In tal modo alla Cassazione viene attribuito un ruolo nomofilattico, rafforzato dal fatto che quello stesso articolo 64 comma 7 TU introduce qualcosa riecheggiante alla lontana il vincolo del precedente proprio del diritto anglosassone. Se sulla questione pregiudiziale il giudice non intenda uniformarsi ad una pronuncia della Cassazione già emessa, deve seguire la via tracciata dal comma 3, cioè emette quella sentenza parziale ricorribile in Cassazione.
Nello stesso senso è andato l'inserimento fra i motivi di ricorso in Cassazione della violazione o falsa applicazione di norme non solo di diritto ma anche dei contratti ed accordi nazionali di lavoro, anticipato per l'impiego pubblico, ma esteso, poi, anche al settore privato.
Evoluzione del diritto sindacale.[]
Nel tempo il legislatore non è intervenuto in modo organico. Tuttavia in alcuni casi lo ha fatto e, nel tempo, si sono formate almeno tre fonti eteronome. La prima è quella costituzionale, gli articoli 39 e 40 della Costituzione. La secona legge, che ha caratterizzato sia il diritto del rapporto di lavoro sia il diritto sindacale e tutt'ora è applicata, è la legge 20 maggio 1970 numero 300 conosciuta come Statuto dei lavoratori. Questa legge non interrompe l'astensionismo legislativo, nel testo non ci si occupa del sindacato. Lo Statuto promuove ma non regolamenta. Terza fonte, la legge 146/1990 sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali. Questa è una legge che è intervenuta a regolare, ma solo 42 anni dopo l'entrata in vigore dalla Costituzione, e comunque non regolamenta lo sciopero in generale ma solo quello nei servizi pubblici.
Per evoluzione intendiamo la sequenza di tre macro - periodi: il periodo corporativo, il modello costituzionale, il periodo post costituzionale.
Il periodo corporativo.[]
Il periodo corporativo è l'esatto modello capovolto rispetto all'attuale, è il contrario rispetto all'attuale.
Il sistema corporativo fascista prende forma con la legge 563/26, la legge sindacale fascista. Quel sistema aveva una legge organica, sistematica che regolava il sindacato, regolava il contratto collettivo e regolava anche lo sciopero e la serrata.
Il sindacato era una persona giuridica pubblica. La forma tutt'ora prevalente per il sindacato è la forma associativa. La forma associativa richiede di atto costitutivo, di statuto, a prescindere dal riconoscimento o meno; ma esistono anche sindacati senza forma associativa che hanno forma organizzativa: basta avere un patrimonio, una pluralità di soggetti, la finalità che autonomamente si danno. Nel sistema fascista i sindacati erano associazioni riconosciute che acquistavano personalità giuridica, e neanche solo di diritto privato ma di diritto pubblico. I nostri sindacati oggi sono associazioni non riconosciute di diritto privato cui si applicano gli articoli 36, 37 e 38 del codice civile.
Nel sistema corporativo c'era un sindacato unico per categoria. In realtà potevano esistere anche altri sindacati, ma non riconosciuti che rimanevano mere associazioni. A differenza del sistema attuale che vede un insieme di sindacati liberamente costituiti che girano attorno alle tre grandi sigle CGIL, CISL e UIL ed altri sindacati autonomi che non aderiscono e non gravita attorno alle tre grandi sigle.
Le categorie dovevano essere predeterminate: si riteneva esistessero ongologicamente, cioè la categoria preesisteva al sindacato. Oggi la categoria è volontaristica: è il sindacato che costituendosi crea la categoria, ovviamente bisogna fare i conti con i rapporti di forza e con il principio del libero riconoscimento, cioè deve essere tanto forte da imporsi alla parte datoriale come interlocutore.
Il sindacato unico per categoria aveva la rappresentanza legale della categoria. L'iscrizione del lavoratore valeva poco o nulla, infatti la rappresentanza è quello schema di sostituzione per cui gli effetti dell'atto compiuto dal rappresentante ricadono nella sfera del rappresentato. L'iscrizione non aveva il valore che ha oggi.
Dalla rappresentanza legale scaturiva l'efficacia soggettiva generalizzata del contratto collettivo stipulato dal sindacato. Il modello era speculare per quel che riguarda la parte datoriale. Oggi essendo l'iscrizione al sindacato una forma di libertà, si pone il problema dell'efficacia soggettiva generalizzata del contratto collettivo stipulato per i non iscritti. La mancata attuazione degli articoli della Costituzione, non ha costituito un problema di efficacia erga omnes del contratto perchè fino ad un certo punto i contenuti erano migliorativi. Oggi il contratto dovrebbe vincolare solo gli iscritti, non tutti, perchè il sindacato non ha la rappresentanza legale che aveva nel sistema corporativo fascista. Quando i contratti hanno iniziato a contenere regole peggiorative, i lavoratori non iscritti si sono ricordati che l'articolo 39 non è mai stato attuato ed hanno iniziato a contestare.
Nel sistema corporativo si negava che il rapporto di lavoro scaturisse da un contratto a prestazioni corrispettive, ovvero si negava l'esistenza di una contrapposizione di interessi fra lavoratori e datori. Oggi riconosciamo come dato strutturale e genetico la contrapposizione di interessi. Allora si negava perchè si preferiva ricostruire il rapporto sulla base di mero rapporto istituzionale o di fatto che si realizzava con l'inserimento del lavoratore nell'impresa. Per noi il contratto è la fonte del rapporto, allora si riconosceva l'istituzione. Questa teoria asseriva l'esistenza di una comunità, in cui tutti lavorano non per il proprio interesse, ma per l'interesse superiore della produzione nazionale. Questa considerazione faceva sì che la contrapposizione di interessi fra lavoratori e datore passasse in secondo piano. Negando la contrapposizione di interessi si arrivava a negare il conflitto, quindi in quel sistema sciopero e serrata venivano considerati reato. Nel nostro sistema lo sciopero è dienuto un diritto, della serrata non si fa menzione (si ammette che è una libertà, non un diritto).
Lo sciopero è posto in essere dai lavoratori e consiste nell'astensione comune dalla prestazione lavorativa disposta da una pluralità di lavoratori per il perseguimento di uno scopo. Lo scopo può essere contrattuale, economico, politico, di solidarietà. La serrata è posta in essere dal datore che non accetta la prestazione dei lavoratori. La serrata oggi si estende anche, a scopo di perseguirla, il mancato accoglimento della prestazione quando l'impresa è aperta e tutto funziona, ma il datore rifiuta la prestazione lavorativa.
Il periodo costituzionale.[]
Gli articoli 39 e 40 della Costituzione sono strettamente collegati. I progetti di attuazione dell'articolo 39 riguardavano anche il 40, perchè l'idea del costituente era che fossero soprattutto i sindacati riconosciuti ad avere il diritto di sciopero e quindi a gestire il conflitto. L'articolo 40 della Costituzione è divisibile idealmente in due parti: la prima è stata attuata, e la seconda no.
Articolo 39 della Costituzione.[]
Articolo 39 comma 1:
L'organizzazione sindacale è libera.
Questo è il comma attuato, perchè non c'era bisogno di una legge per attuarlo. è molto attuato perchè dentro questo comma ci sta tutto il sindacato: ci sta la possibilità di costituirsi liveramente, di fare opera di proselitismo, ci sta la possibilità per i lavoratori di iscriversi, il diritto per il sindacato di scegliere la sua strategia contrattuale, rivendivativa, ci sta la libertà di contrattazione collettiva; poi come tutte le libertà ha un diplice aspetto, c'è anche la parte negativa: c'è anche la possibilità, il diritto di non iscriversi. è una norma breve nella formulazione letteraria, ma amplissima che sconvolge il sistema rispetto a quello precedente. In questa norma ci sta anche il pluralismo sindacale: tutti coloro che si proclamano sindacato acquisiscono le libertà sindacali.
I commi 2, 3, 4 prevedevano il modello di sindacato, perchè si riteneva non si potesse lasciare tutto alla libertà del sindacato e dei singoli lavoratori. Il comma 1 dell'articolo 39 è stato ricondotto al movimento, che è quello che arriva dal basso; i commi 2, 3 e 4 invece apparterrebbero all'istituzione per garantire nel pluralismo, certezza al momento dell'applicazione del contratto.
Articolo 39 comma 2:
Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazioni presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge.
Unico obbligo: registrarsi. La registrazione voleva dire riconoscimento, ma un riconoscimento diverso da quello previsto dal codice civile per le associazioni in genere: la registrazione era l'equivalente del riconoscimento. Il comma 2 non è stato attuato, quindi i sindacati sono stati riconosciuti.
Articolo 39 comma 3:
è condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sancscano un ordinamento interno a base democratica.
L'ordinamento interno dei sindacati doveva essere a base democratica. Il timore sancito da questo comma per i sindacati era quello di un ritorno al passato con un controllo specifico.
Articolo 39 comma 4:
I sindacati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce.
Il modello era questo: i sindacati si registravano, acquistavano la personalità giuridica, poi venivano contati gli iscritti ed in proporzione i sindacati costituivano organismi unitari nella quale stavano tutte le sigle, per categoria, con diversa forza in base agli iscritti. Il modello pensato dal costituente era pensato per arrivare, con la rappresentanza unitaria, ad un solo contratto collettivo e non a più contratti stipulati dalle diverse sigle. Il criterio di fondo aggregante è la categoria. Questa rappresentanza si incontra con l'altra rappresentanza formata dai datori ed insieme stipulano il contratto che è erga omnes perchè si applica a tutta la categoria di riferimento. Quindi nell'articolo 39 della Costituzione c'era l'erga omnes. Rifiutando la registrazione, l'acquisto della personalità giuridica, i sindacati hanno rifiutato anche di essere contati perchè oggi non c'è l'obbligo di dichiarare gli iscritti.
Con l'inattuazione dei commi 2, 3 e 4 abbiamo un sindacato che quando stipula un contratto non ha la garanzia formale dell'efficacia generalizzata: si sa di sicuro che il contratto si applica agli iscritti, per l'applicazione ai non iscritti deve affidarsi al diritto sindacale.
Articolo 40 della Costituzione.[]
Il diritto di sciopero si esercita nell'ambito delle leggi che lo regolano.
La parte rivoluzionaria è la prima: il diritto di sciopero, perchè nel sistema corporativo lo sciopero era reato. Si vedrà nel sistema post costituzionale che il diritto di sciopero ha subito tutta una serie di limitazioni di vario tipo ed altre sono state costruite dalla giurisprudenza. L'altra parte, quella che recita nell'ambito delle leggi che lo regolano è la parte non attuata, od almeno parzialmente non attuata perchè nel 1990 è stata emanata la legge numero 146 che ha regolato lo sciopero nei servizi pubblici essenziali. Perchè non sono state attuate le parti che avrebbero previsto una certa regolamentazione del diritto di sciopero e dei diritti di libertà sindacale? Per diverse ragioni.
Innanzitutto per una ragione storica ed ideologica: si temeva che con la regolamentazione e con la legislazione, in particolare con l'istituzione dell'anagrafe sindacale, ed anche con la disciplina del diritto di sciopero prevista dalla seconda parte dell'articolo 40 della Costituzione, si fosse potuti tornare alla repressione del periodo ante Costituzione.
Proprio per valorizzare veramente i nuovi principi, il sindacato ha rifiutato l'attuazione degli articoli 39 e 40 della Costituzione. Con questo il sindacato ha accettato sia di essere un'associazione non riconosciuta sia di pagare il prezzo dell'assenza formale di efficacia soggettiva generalizzata del contratto. Ci sono altre ragioni di carattere endo-sindacale. Se i sindacati avessero costituito la rappresentanza unitaria a livello di categoria prevista dal comma 4 dell'articolo 39 della Costituzione, si sarebbe affermato come sindacato dominante, all'interno di questo organismo, la CGIL che a quel tempo aveva un numero di iscritti largamente superiore rispetto alle altre sigle.
L'articolo 39 prevedeva l'istituzione della rappresentanza unitaria che era comunque pluralistica, ma non diceva nulla su come dovesse prendere decisioni al suo interno. Ancora oggi nel settore privatistico non si usa il carattere di maggioranza, il sindacato non lo ha voluto. All'epoca si sono create le anime all'interno delle organizzazioni sindacali: la CGIL è stato il sindacato da sempre più favorevole all'attuazione degli articoli 39 e 40 della Costituzione, invece il sindacato che sempre si è dimostrato contrario è la CISL. Questo conflitto oggi è stato accentuato a seguito delle vicende del 2009 - 2011, Pomigliano e Mirafiori, accordo del gennaio 2009.
Altro motivo è un problema di conflitto intersindacale.
Il periodo dopo la Costituzione.[]
Il diritto sindacale inizia il suo cammino avendo alle spalle due norme di livello costituzionale parzialmente non attuate. Diviiamo der decenni.
La Costituzione è del 1948, quindi il primo decennio in esame è quello degli anni cinquanta, che in dottrina sono stati definiti anche gli anni della memoria perchè in questi anni non succede granchè di nuovo. Succede che il sindacato respira aria fresca, ci furono tentativi di elaborare progetti di attuazione, perchè all'epoca non si sapeva che non ci sarebbe stata attuazione degli articoli costituzionali. Il rifiuto all'attuazione non si è manifestato in un no, è stato un rifiuto continuamente ribadito, dinamicamente manifestato.
Il sindacato inizia a camminare sulle sue gambe, c'è la stipulazione di un certo numero di contratti collettivi che a differenza del periodo corporativo non sono regolati dalla legge ma vale la disciplina prevista nel libro I del codice civile. Sul versante dello sciopero, quegli anni furono ancora molto duri, perchè nonostante il riconoscimento dello sciopero come diritto la giurisprudenza doveva ancora districarsi tra le vischiosità del precedent regime ed aveva ancora a che fare, dal punto di vista degli scopi dello sciopero, con gli articoli del codice penale.
Nel 1959 c'è un episodio significativo. Il legislatore si rende conto che sono passati dieci anni dalla Costituzione, vede che il sindacato ha stipulato dei contratti collettivi di diritto comune e teme che i minimi di salario contenuti nei contratti collettivi non siano applicabili a tutti, allora il legislatore tenta un escamotage. Si pensa che innanzitutto bisogna rendere erga omnes i minimi di salario che sono importati perchè per il diritto sindacale i minimi sono finalizzati a derogare, nell'ambito lavoristico, la legge della domanda e dell'offerta, e sono finalizzati per questo stesso motivo alla tutela del lavoratore subordinato.
Dunque se il minimo non è erga omnes, è come se il minimo non esistesse.
Il minimo realizza la sua funzione essenzialmente in combinazione con la funzione di uniformazione di trattamenti. L'estensione nazionale dei minimi è stato sempre un obiettivo dei sindacati, anche perchè la categoria ed il contratto di categoria hanno estensione nazionale.
Non è sempre stato così, perchè prima del 1954 c'erano le famose gabbie salariali: quelle zone all'interno delle quali vigono minimi diversi secondo area geografica, sesso ed età.
Nel 1959 il legislatore ha emanato la legge 741 (legge Vigorelli) che prevedeva il meccanismo della ricezione dei contratti collettivi di diritto comune fino ad allora stipulati, in decreti legislativi emanati dal governo. I decreti a questo punto acquistavano tutti i requisiti di forza normativi e quindi anche la generalità, ed i contratti collettivi diventano erga omnes.
Nel 1960 il legislatore ha emanato una leggina di proroga in cui nuovamente delegava il Governo a recepire in decreto i contratti collettivi stipulati fra il 1959 ed il 1960, Questa legge di proroga è stata dichiarata incostituzionale per un motio molto semplice: nell'articolo 39 della Costituzione disse che la legge del 1959 poteva ritenersi legittima perchè era una tantum, ma la legge del 1960 tendeva a stabilizzare un modello di ricezione del contratto collettivo che era diverso da quello previsto dal comma 4 dell'articolo 39 della Costituzione,
Anni Sessanta.[]
Abbiamo un grande sviluppo della materia. Dal punto di vista del diritto sindacale rappresenta il momento della sua maggiore gloria, ancora perchè l'anno di chiusura del decennio il 1970 porterà allo Statuto dei lavoratori. Con lo statuto abbiamo il massimo del garantismo ed il massimo della promozione senza regolamentazione del sindacato. La dimensione prevalente nel periodo degli anni '60 fino al 1970 nel diritto sindacale era quella del conflitto. In quegli anni, quelli dell'autunno caldo 1968 - 1969, si diceva che il salario era una variabile indipendente. Il contratto collettivo era l'unico strumento con il quale si poteva entrare in contatto con la controparte. Sono gli anni del conflitto e non quelli della partecipazione. La partecipazione nega il conflitto.
Gli anni '60 anche per il rapporto di lavoro subordinato è un decennio acquisitivo, fortemente garantistico a favore del lavoratore. Tutte le leggi fondamentali per la nostra materia sono state emanate in questo decennio.
Nel 1970 viene emanata la legge numero 300, conosciuta come Statuto dei lavoratori, che resta tutt'ora una legge fondamentale, sia per quanto concerne il diritto sindacale, di cui si occupa il titolo III articolo 19 e seguenti, sia per quanto concerne il rapporto di lavoro individuale, basta ricordare l'articolo 18.
Lo Statuto dei lavoratori non interrompe l'astensionismo legislativo.
Nello Statuto non si trova una regola: non si trova la definizione di sindacato, non si trova la regola su come si stipula il contratto collettivo, non si trova la regola su chi deve trattare con il datore di lavoro, non si trova la regola su come scioperare, non si trova nessuna norma che contenga un diritto di informazione.
Lo Statuto viene definito come una normativa per il sndacato promozionale, garantistica, non regolamentativa.
Con l'articolo 19 si dice che il sindacato è entrato in fabbrica, perchè prevede le cosiddette RSA che sono praticamente i sindacati nell'azienda. Prima c'erano dei rappresentanti in azienda, però non erano sindacali; poi per avvicinarsi all'azienda l sindacato aveva istituito le cosiddette Sezioni Sindacali Aziendali (SAS) che però erano delle sezioni distaccate dei sindacati territoriali, che non erano dentro l'azienda, erano però decentrate sul territorio.
La RSA è il primo organismo sindacale dentro l'azienda e rappresenta per l'impresa un costo, anche perchè lo Statuto dei lavoratori promuove, il che vuol dire che prevede dei diritti senza chiedere nulla in cambio. Questi diritti sono quelli propriamente contenuti negli articoli seguenti: l'articolo 20 prevede il diritto di assemblea; il 21 prevede il diritto di indire referendum; il 22 prevede l'obbligo per il dtore, qualora voglia trasferire un lavoratore che è anche membro della RSA di chiedere l'autorizzazione al sindacato esterno di appartenenza; gli articoli 23 e 24 prevedono permessi retribuiti o non retribuiti per i componenti delle RSA per espletare il loro mandato; il 25 prevede il diritto alle bacheche; il 26 il diritto di solgere liberamente attività di proselitismo e l'obbligo per il datore di cooperare per il versamento della quota associativa; l'articolo 27 prevede l'obbligo ai locali.
Lo Statuto dei lavoratori quando ha previsto le RSA non poteva lasciare libera la costituzione di RSA. Il legislatore ha dovuto prevedere un filtro: non tutti i sindacati esterni possono avere una RSA in azienda.
L'articolo 19 dello Statuto dei lavoratori prevede le RSA con scopi promozionali, non chiede nulla in cambio dal punto di vista regolamentativo però prevede un filtro. Questo filtro della maggiore rappresentatività è finalizzato a far sì che i sindacati che poi stanno in azienda per il tramite dei lavoratori, siano sindacati affidabili.
L'articolo 19 sarà sottoposto ad un referendum e cambierà formulazione.
L'articolo 19 nella formulazione del 1970 dice:
le rappresentanze sindacali aziendali possono essere costituite ad iniziativa dei lavoratori in ogni unità produttiva, nell'ambito: a) delle organizzazioni sindacali aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale.
Questa era la lettera, si dice, della maggiore rappresentatività presunta. Voleva dire che un sindacato per avere una sua RSA doveva adire alle confederazioni maggiormente rappresentative, e cioè CGIL - CISL - UIL. Questo sindacato non venia misurato, per avere una RSA bastava che aderisse ad una confederazione rappresentativa.
Le grandi conquiste del diritto sindacale si sono ottenute in un contesto di unitarietà, contesto che oggi abbiamo perduto.
Si inducevano i sindacati ad adire, CGIL, CISL e UIL erano unite, tendenzialmente si diceva rappresentassero tutto il mondo del lavoro, un po' come dei partiti più che dei sindacati, perchè la confederazione orgaizzando tante federazioni di categoria, essendo intercategoriale persegue interessi di carattere generale riferiti alla classe lavoratrice.
b) Delle associazioni sindacali, non affiliate alle predette confederazioni, che siano firmatarie di contratti collettivi nazionali o provinciali di lavoro applicati nell'unità produttiva.
Questa era la lettera della maggiore rappresentatività effettiva. Si diceva: può anche essere che un sindacato sia forte, ma non aderente a CGIL, CISL e UIL, ed allora non gli si possono negare le RSA. Però quel sindacato deve dimostrare la sua forza che consisteva nell'aver stipulato un contratto collettivo nazionale o provinciale.
La promozionalità stava nel fatto che lo Statuto dei lavoratori introduceva dei diritti per il sindacato senza chiedere nulla e soprattutto promuoveva moltissimo il sindacato storico tradizionale.
Il problema è che la lettera A presa così com'era, era veramente selettiva, perchè visto che è contenuto il termine confederazioni, e quindi ti diceva che doveva essere per forza intercategoriale, per cui i sindacati forti, abbastanza rappresentativi non sono mai riusciti veramente ad avere delle RSA loro proprie, perchè non erano confederazioni.
Quindi non avevano la lettera A, ma non avevano di fatto nemmeno la lettera B perchè non sono mai riusciti a stipulare un loro contratto collettivo nazionale o provinciale, quindi non avevano i due requisiti: nè la maggiore rappresentatività presunta nè la maggiore rappresentatività presunta.
Anni Settanta.[]
Gli anni '70 sono deginiti il decennio dell'emergenza. Inizia ad incrinarsi il sistema lineare spontaneo, volontaristico, garantistico del decennio precedente. Nel 1972 - 1973 c'è stata la crisi energetica, poi c'è stata l'innovazione tecnologica che ha avuto un grandissimo peso, perchè ha trascinato con sè la terziarizzazione del mondo produttivo, cioè si sono sviluppati i servizi. Lo Statuto resta legato al settore secondario, perchè quando si pensava al conflitto, la categoria dei metalmeccanici era la più vivace, che trascinava tutte le altre, allora il modello di lavoratore da proteggere per il diritto del lavoro era l'operaio. Poi con l'arrivo della terziarizzazione si sono moltiplicati i soggetti da proteggere. Solo che a questo punto è molto più facile proteggere soggetti che lavorano in una fabbrica, in modo standardizzato insieme a molti altri, che non proteggere un'eterogeneità di lavoratori che fanno tutti qualcosa di diverso e della quale non si riescono a cogliere del tutto i connotati della prestazione.
Negli anni '70 c'è stata un'altra grande emergenza: l'inflazione ha cominciato a galoppare, per arrivare negli anni 1982 - 1983 al 16%,
Uno degli obiettivi principali seguiti dal legislatore negli anni '70 è stato quello di contenere l'inflazione. Questo parametro ha una strettissima connessione con i salari, anzi allora ancora di più perchè esisteva il meccanismo della scala mobile che, al fine di mantenere inalterato nel tempo il potere d'acquisto dei salari, prevedeva sulla base di una indicizzazione aumenti automatici, non volontari, in busta paga della voce cosiddetta indennità di contingenza al variare di un indice dei prezzi calcolato sulla base di un paniere di beni.
La voce indennità di contingenza era quella correlata all'andamento dei prezzi. Aumentava solo quella voce, perchè i minimi erano già aggiornati sulla base dell'indennità.
Il legislatore si è preoccupato di questa situazione ed ha introdotto nell'ordinamento sindacale i cosiddetti tetti massimi.
Fra legge e contratto collettivo ci sono tre modelli di rapporto.
Il modello classico: prevede che la legge sia un minimo e che il contratto collettivo possa sempre derogarla in melius. Ecco perchè si parla di inderogabilità unilaterale come tratto caratterizzante del diritto del lavoro. Nel modello classico la normativa è inderogabile, solo unilateralmente in melius.
Questo modello è stato affiancato dal modello dei tetti massimi. Il tetto massimo è un provvedimento legislativo che impedisce al contratto collettivo di derogare in melius la norma di legge, cioè la norma non è più un minimo ma è un massimo. Se il contratto collettivo la deroga anche solo in melius, si applica l'articolo 1418 del codice civile.
Diritto del lavoro dell'emergenza = tetti massimi.
In questo periodo per contenere le dinamiche inflattive il legislatore interviene con i tetti massimi impedendo ai contratti collettivi, quello che secondo qualcuno è racchiuso nell'articolo 39 della Costituzione, cioè di derogare sempre in melius la norma di legge.
I tetti massimi sono stati creati per la scala mobile, quindi riguardano l'indennità di contingenza, i minimi non sono stati toccati e sono sempre rimessi alla libera contrattazione. Potevano essere aumentati perchè in azienda nel caso del contratto individuale, in realtà, capita spesso che vengano fissati dei super-minimi che sono volontaristici.
I tetti massimi erano all'inizio dei rallentamenti in percentuale e contestualmente a questo provvedimento era stato stipulato un protocollo che invitava i sindacati all'attenzione affinchè in azienda non venissero stipulati i super-minimi.
Il governo aveva bisogno del consenso ed il 14 febbraio 1984 ci fu il famoso protocollo che al momento della firma vide la rottura dell'unità sindacale. Il protocollo, che passò alla storia con il nome di disaccordo di San Valentino, fu sottoscritto da CISL, UIL, Confindustria, pubblici poteri, una parte della CGIL ma senza la parte comunista della CGIL che si tirò indietro perchè non voleva che ci fosse il taglio dei due punti.
Quello fu il primo esempio di accordo separato. Nel 2009 e 2010 gli accordi sono stati separati. Questo disaccordo servì all'emanazione della legge.
Il decreto che tagliava i due punti era un tetto massimo, perchè se fosse stato il classico minimo, i sindacati avrebbero potuto reintrodurre i due punti, cioè azzerare l'effetto benefico quando volevano perchè avrebbero potuto aumentare i minimi ed invece li sono stati bloccati: ci sono state delle implicazioni di carattere costituzionale, perchè vi fu chi disse che il blocco della contrattazione collettiva, che inibiva chi disse che il blocco della contrattazione collettiva, era incostituzionale ai sensi del comma 1 dell'articolo 39 della Costituzione che prevede la libertà di contrattazione.
Il rapporto di forza è il collante delle nostre relazioni industriali. Questo tipo di rapporto si nutre del principio della libertà sindacale. C'è un parallelismo fra il sistema di rappresentanza dei lavoratori e quello dei datori.
La Fiat è uscita da Confindustria: ciò può portare ad accordi separati, non dalla parte della rappresentanza dei lavoratori ma da quella datoriale. Un atto di separazione di un sindacato poco rappresentativo ha delle conseguenze che il nostro sistema metabolizzerebbe subito: per un sindacato come Confindustria l'effetto con ogni probabilità sarà quello di spaccare il fronte datoriale ed aprire un varco ad una pluralità di contratti collettivi.
Anni Ottanta.[]
Negli anni '80 lo schema di rapporto legge - contratto collettivo viene di nuovo svolto: modello classico, modello dei massimi, modello della deregulation.
Negli anni '80 con l'istanza di flessibilità il legislatore ha introdotto la deregulation: deregolamentazione che interessa sia il diritto del lavoro sia il diritto sindacale.
La deregulation è un terzo modello di rapporto fra legge e contratto tale per cui, in presenza di una disposizione legislativa di autorizzazione, in presenza di un contratto collettivo che verifichi la sussistenza di alcune condizioni, è possibile per il sindacato derogare in peius a disposizione di legge ovvero a garanzie previste a favore dei lavoratori da disposizioni di legge.
L'attenuazione delle garanzie è una flessibilità, perchè in diritto del lavoro nasce per essere rigido.
Rigidità è un termine che va messo insieme agli altri termini quali conflitto, proporzionalità ed astensionismo legislativo. Conflitto, perchè il sindacato sposa l'ottica della rivendicazione ad oltranza; proporzionalità, perchp al sindacato non viene chiesto nulla tranne che di essere forte per godere di certi diritti; rigidità della tutela perchè non la si tocca comunque, non la puoi derogare in peius sia dal punto di vista individuale che collettivo.
Il sistema che abbiamo oggi prevede una legislazione di rinvio: al posto dell'astensionismo legislativo, c'è il legislatore che rinvia sempre più al sindacato determinate funzioni e quasi sempre non sono funzioni di miglioramento del trattamento.
Nel 1991 con la legge numero 223, cosiddetta sugli istituti di gestione della crisi di impresa, si arriva alla norma di deregolazione nell'articolo 4 comma 11 che si occupa di mobilità, e la legge la prevede come extrema ratio.
Il datore insieme al sindacato devono valutare l'esistenza di soluzioni alternative alla mobilità; quando hanno verificato l'impossibilità di trovare delle alternative possono procedere alla messa in mobilità.
La soluzione alternativa che viene sugerita dalla legge nell'articolo 11 sancisce la possibilità di un accordo fra datore e sindacato che può prevedere lo spostamento dei lavoratori a manifestazioni diverse.
Il termine diverse in questo contesto non può voler dire equivalenti, perchè già l'articolo 2103 del codice civile lo prevede, non può voler dire a mansioni superiori, quindi vuol dire spostamento a mansioni inferiori.
è la legge che autorizza il sindacato a stipulare un accordo che deroga al divieto di dequalificazione. L'accordo è lecito perchè c'è la disposizone di legge; tutto il processo di deregolamentazione avviene attraverso disposizioni di legge, perchè il contratto collettivo non potrebbe mai avere di per sè l'iniziativa del peggioramento anche in situazioni di crisi, perchè se il diritto è garantito dalla legge il contratto collettivo non può toccarlo. In questo contesto è la stessa legge che dice:
se il sindacato è d'accordo si può derogare in peius all'articolo 2103 del codice civile.
Il terzo modello della deregulation viene introdotto in modo sistematico lungo il corso degli anni '80, ed è un modello con cui si realizza una tendenza alla flessibilità.
In teoria
Anni Novanta.[]
Sarà un decennio fondamentale dal punto di vista del diritto sindacale, perchè è già all'inizio degli anni '90 che si comprende che la lettera A dell'articolo 19 dello Statuto dei lavoratori era dientata un guscio vuoto. Questo perchè la RSA veniva riconosciuta a quei sindacati che si presupponevano forti e rappresentativi, tant'è che non si è mai verificato veramente il numero degli iscritti, quindi la rappresentatività presunta diventa un guscio vuoto. La lettera A era insomma una sorta di patente di sistema su cui poggiava la promozionalità. La lettera B dell'articolo 19 dello Statuto di lavoratori comuncia ad essere valorizzata.
Ad inizio del decennio con la consapevolezza della crisi di rappresentatività parte la raccolta di firme per un referendum che aveva per oggetto l'articolo 19. Un quesito referendario massimalista, voleva tenere l'articolo 19 come cornice ma voleva abrogare sia la lettera A che la lettera B che costituivano i filtri per la costituzione di RSA. Se si fossero eliminati i filtri, in una situazione anomica come quella del nostro diritto sindacale in cui non ci sono norme di legge, sarebbe potuto succedere che qualsiasi gruppo di lavoratori che si fosse definito sindacato avrebbe potuto pretendere una propria RSA, perchè a quel punto l'unico requisito rimasto sarebbe stato quello dell'iniziativa dei lavoratori. L'effetto sarebbe stato devastante: il datore avrebbe dovuto concere i diritti previsti dagli articoli 20 e seguenti dello Statuto a tutti i gruppi lavoratori che si fossero dichiarati sindacato. Questo quesito non è riuscito a raggiungere il quorum per abrogare le lettere A e B. In sostanza questo quesito voleva dire, dare ai lavoratori le rappresentanze sindacali aziendali eliminando il filtro del sindacato.
Insieme a questo quesito ne fu proposto un altro, moderato, che raggiunge il quorum ed è quello che ci dà oggi la nuova configurazione dell'articolo 19. Questo quesito prevedeva l'abrogazione della lettera A, che era quella più colpita dalla crisi di rappresentatività, perchè in un momento in cui il sindacato perdeva consenso non aveva senso dargli questo credito. La lettera B avrebbe subito modifiche nella parte relativa alla firma della tipologia dei contratti firmati dai sindacati.
Questo era un quesito moderato perchè assottigliava il filtro e riconosceva la capacità di avere delle RSA ai sindacati che avessero firmato un contratto, che però non rimaneva più solo nazionale o provinciale, anche aziendale.
Nel 1993 viene stipulato un importantissimo protocollo il 23 luglio che è stato battezzato come la costituzione materiale delle nostre relazioni industriali. Questo accordo interviene in più punti del sistema:
- Viene introdotta la politica dei redditi che sostituisce la scala mobile (la scala mobile è un meccanismo automatico, la politica dei redditi è un meccanismo volontario).
- Si cerca di razionalizzare la struttura del sistema, creando un sistema di specializzazione sotto il profilo delle competenze per le tipologie di contrattazione nazionale ed aziendale. Il rapporto fra contratto nazionale ed aziendale ha dato e da dei problemi, perchè il contratto aziendale tende a scappare od in avanti od all'indietro rispetto al nazionale.
- Chi ha sottoscritto il protocollo sapeva che vi era la necessità di introdurre un modello di rappresentanza sindacale in azienda che recuperasse il consenso perduto, perchè le RSA non erano state in grado di comporre nell'azienda le istanze, le esigenze degli iscritti con quelle dei non iscritti.
La RSA è un modello di matrice associativa, cioè è molto legata al sindacato esterno che la ha riconosciuta, perchè è una sua emanazione. Il protocollo del 1993 dice chiaramente che si auspica un nuovo modello di rappresentanza sindacale in azienda che sappia aggregare il consenso di tutti i lavoratori senza perdere il contatto con i sindacati esterni. QUesto modello di cui si auspica l'avvento è la RSU = rappresentanza sindacale unitaria che si propone come modello alternativo essenzialmente per un motivo: la RSU viene eletta mentre la RSA veniva riconosciuta dal sindacato esterno.
Proprio il timore che le RSU sfuggissero al controllo dei sindacati, ha inciso sul modello stabilito dal terzo punto del protocollo che prevede la clausola del terzo riservato. Questa clausola prevedeva che tra tutti i componenti della RSU 1/3 continua ad essere designato dai sindacati firmatari dell'accordo interconfederale che regola le RSU. Questo terzo viene ripartito sulla base del consenso, ovvero sulla base dei risultati che hanno avuto le elezioni RSU.
A seguito del protocollo del 23 luglio 1993 che auspica le RSU, ci sarà la stipulazione il 20 dicembre 1993 dell'accordo interconfederale nella quale si trovano tutte le regole sulle RSU.
L'accordo del 20 dicembre 1993 che aveva dato una chiara fisionomia alle RSU era volto a compattare più lavoratori possibile, a recuperare il consenso perduto, a rinforzarsi dopo la crisi di rappresentatività ed ad evitare il referendum sull'articolo 19. Tutta questa operazione era stata fatta dai sindacati confederali; tuttavia il referendum nel giugno del 1995 si è tenuto.
Oltre ai due quesiti sull'articolo 19 vi erano altri due quesiti: il terzo quesito riguardava l'articolo 26 della legge 300/70, Statuto dei lavoratori, nella parte in cui si prevede l'obbligo per il datore, su richiesta del lavoratore, di effettuare una trattenuta in busta paga corrispondente alla quota che il lavoratore deve versare al sindacato di appartenenza come quota di associazione.
Questo è un punto molto importante per il sindacato, perchè questo automatismo permette l'iscrizione e la delega al datore l'operazione per il versamento quota. L'articolo 26, nell'ottica del sostegno, prevedeva questo obbligo per il datore su base legale.
Questo quesito ha raggiunto il quorum. Il sistema non è crollato, perchè pur non esistendo più l'obbligo legale, quasi tutti i contratti collettivi prevedono un obbligo per il datore di lavoro di collaborare allo stesso modo previsto dall'articolo 26 su base contrattuale e non più su base legale. Delle difficoltà si sono evidenziate, perchè si disse che queste regole non sarebbero valse per i sindacati che non avessero firmato il contratto collettivo.
Il quarto quesito riguardava l'articolo 47 del Decreto Legislativo 29/93, ovvero il decreto che privatizza il rapporto di pubblico impiego. Attualmente il rapporto dei pubblici dipendenti è regolato da contratti collettivi, come nel settore privato. Per stipulare questi contratti collettivi nel pubblico c'è una differenza: visto che c'è un soggetto centralizzato per i datori, l'ARAN, nasce l'esigenza di conoscere l'interlocutore per evitare frammentazione. Nel pubblico impiego, essere un sindacato rappresentativo vuol dire avere il diritto di essere convocato dall'ARAN al tavolo delle trattative per la stipulazione dei contratti collettivi. Nel privato non è così perchè c'è il principio del mutuo riconoscimento. Quando è stato valorizzato il contratto collettivo come fonte del rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti, con l'articolo 47 si va incontro all'esigenza di riconfigurare le regole in materia di rappresentatività: i criteri per il riconoscimento della maggiore rappresentatività, saranno ridefiniti tramite accordo interconfederale stipulato tra CGIL, CISL, UIL e controparte pubblica; l'accordo doveva essere recepito in decreto.
Questa norma è stata considerata autoreferenziale e per questo è stata oggetto di referendum. Anche questo quesito ha raggiunto il quorum. Abrogato l'articolo 47, disse D'Antona, si è aperto un cratere.
Nel 1995 questi referendum hanno assunto il chiaro significato di una volontà tesa ad indebolire il ruolo delle confederazioni sindacali.
Nel 1990 è stata altresì emanata la legge 146 sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali. La legge è stata emanata dopo 42 anni di silenzio dall'entrata in vigore della Costituzione che con l'articolo 40 prevedeva una regolamentazione dello sciopero, e solo per il settore pubblico, perchè erano stati gli stessi confederali confederali a volerla.
I sindacati confederali hanno voluto questa legge contro il sindacato autonomo, allora il legislatore è riuscito a produrre una legge che interrompe, se pur parzialmente, l'astensionismo legislativo.
Gli anni '90 è dominato dalla crisi delle confederazioni, dalla creazione delle RSU come tentativo di recupero del consenso e dal referendum antisindacale, anticonfederale. Lungo tutto il decennio si sviluppa, in senso contrastante con l'istanza conflittuale, l'istanza partecipativa. Questa istanza partecipativa se viene realizzata a livello di vertice, con l'intervento dei pubblici poteri, acquista il nome di concertazione.
La concertazione è quella prassi per cui il Governo, prima di prendere importanti decisioni in ambito macroeconomico, consulta i sindacati aprendo un tavolo di vertice. Il tavolo concertativo è un tavolo triangolare; i pubblici poteri sono interessati, oltre perchè poi dovranno deliberare od emanare il provvedimento, perchè a questi tavoli si realizza il cosiddetto scambio politico: tutti i soggetti presenti al tavolo mettono a disposizione delle risorse affinchè l'accordo possa essere raggiunto. La concertazione è andata in crisi dopo il Libro Bianco. La concertazione è una prassi, fa parte della Costituzione materiale; si sviluppa negli anni '90 in modo equilibrato.
Anni Duemila.[]
Il 2000 si presenta come il millennio dominato dall'Europa, dalla tematica occupazionale, ancora dalla deregolamentazione e della flessibilità.
Un provvedimento legislativo che ha segnato l'inizio del millennio è il Decreto Legislativo 276 del 2003, figlio della Legge Delega 30 del 2003 conosciuta come Legge Biagi. Entrambi questi provvedimenti sono figli del Libro Bianco che si intitola per u ripensamento del diritto del lavoro: spiegava che la materia doveva essere ripensata in chiave più leggera, più moderna, nell'ottica di promuovere l'occupazione. I problemi erano due: l'occupazione e tenere il passo con l'Europa: dare alle imprese la competitività e la flessibilità serve a dare l'idea di un alleggerimento della normativa lavoristica finalizzata ad incentivare le imprese ad assumere, finalizzata a ridurre il costo del lavoro, finalizzata a creare più condizioni possibili per l'incontro tra domanda ed offerta di lavoro.
La flessibilità porta con sè la deregolazione ma si esprime anche come articolazione del tipo lavoro subordinato.
Tra il 2001 ed il 2002 viene elaborato il Libro Bianco, che è un documento governativo che si propone di risolvere il problema occupazionale, anche in coerenza con le sollecitazioni europee, introducendo nel sistema un'ulteriore dose di flessibilità.
Dal Libro Bianco, che non è un testo di legge, scaturirà un provvedimento: la Legge Delega numero 30/2003 detta Legge Biagi. In questa legge sono contenuti i principi che devono guidare l'esecutivo nella realizzazione delle innovazioni che riguardano molti profili del diritto del lavoro. La riforma Biagi insiste molto sul diritto del lavoro, con qualche affondo sul versante del diritto sindacale.
I rapporti di lavoro cosidetti atipici o flessibili non sono stati introdotti per la prima volta con la riforma del 2003, alcuni risalgono al 1942, ovvero all'entrata in vigore del codice civile, come il contratto a termine che era previsto nell'articolo 2097.
Le due novità dirette:
- La riforma dà per scontato che sia necessario intervenire sui criteri della maggiore rappresentatività. Da quando è stata eliminata la lettera A dell'articolo 19 dello Statuto dei lavoratori, questa maggiore rappresentatività, viene definita semplicemente come rappresentatività; questa riforma è auspicata e proiettata al futuro; si dice: il problema del diritto sindacale è di rappresentatività e di efficacia.
- La trasformazione della concertazione in trattativa bilaterale di vertice. Questo rimarrà un tentativo.
Nel modello che è stato proposto dalla riforma Biagi, la concertazione è stata molto depotenziata: secondo la prospettazione sia del Libro Bianco che della Legge delega 30/03, la concertazione è storicamente finalizzata a contenere le dinamiche inflative ovvero ad occuparsi di questioni macroeconomiche. Ma più in particolare ancora, quello che si ricava dalla lettura del Libro Bianco è che la concertazione, visto che è finalizzata ad esempio al recupero della capacità di acquisto del salario, avrebbe già esaurito il suo ruolo con il protocollo del 23 luglio 1993 che ha introdotto la politica dei redditi al posto della scala mobile.
La concertazione viene accusata dal Libro Bianco di rallentare gli interventi del Governo e del Parlamento, perchè con la rottura dell'unità sindacale si rischia di non arrivare ad assumere decisioni.
Sulla base di queste considerazioni, il Libro Bianco propone trattative bilaterali. Cioè non propone di non consultare più il sindacato, ma di fare tante trattative separate.
Con la concertazione il Governo metteva risorse proprie e si impegnava un po' con tutti e di conseguenza si vedeva ridurre lo spazio di decisione unilaterale, invece con le trattative bilaterali il Governo ha davanti a sè diverse ipotesi e non si deve preoccupare di mediarle in modo che tutte vengano soddisfatte. Potrebbe sceglierne una al posto di un'altra. In questo modo il Governo riacquisterebbe uno spazio di decisione unilaterale, sicuramente maggiore di quello che esisterebbe se ci fosse una concertazione.
Questa proposta destò molto scandalo, anche perchè tra i suggerimenti del Libro Bianco che poi non sono mai stati seguiti, c'era quello di disinnescare l'articolo 18 a fini occupazionali.
L'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori è considerata una norma di altissima garanzia conquistata dal sindacato, con la quale si prevede la tutela reale contro i licenziamenti illegittimi. è una forma di tutela molto forte, che garantisce la stabilità del posto di lavoro perchè si prevede che tutte le volte che il licenziamento è valutato illegittimo dal giudice, il lavoratore venga reintegrato. La reintegrazione implica che se il licenziamento è illegittimo, è come se il rapporto non si fosse mai interrotto, come se il rapporto di lavoro esistesse per tutti i mesi, gli anni, in cui si protrae il giudizio, tant'è che il datore è condannato oltre alla reintegrazione anche al versamento di tutte le retribuzioni perse per il licenziamento illegittimo, dal giorno del licenziamento fino a quello dell'effettiva riassunzione. L'articolo 18 si applica nelle unità produttive con più di 15 lavoratori oppure nelle imprese con più di 60.
Qualcuno ha iniziato a dire che le imprese sarebbero state incentivate ad assumere se non avessero avuto timore di superare i 15 od i 60 lavortori, la proposta formulata nel Libro Bianco fu quella di istituire in via sperimentale un sistema per cui le assunzioni nelle unità produttive sotto i 15 lavoratori o nelle imprese sotto i 60, effettuate in un biennio dall'entrata in vigore del decreto di riforma con contratti anche a tempo indeterminato, non avrebbero avuto valore nel calcolo dell'organico e quindi della dimensione dell'impresa.
Questa proposta insieme a quella del depotenziamento della concertazione, ha scatenato un clima teso, tant'è che la CGIL si ritirò dalle trattative. La proposta di sterilizzazione dell'articolo 18 rimase nel cassetto.
La terza novità indiretta: anche grazie alla legge delega ed al successivo Decreto 276/03, esiste oggi una cosiddetta legislazione di rinvio, che ha cominciato a crescere da quando è stata introdotta la deregolazione.
La legislazione di rinvio è data dall'insieme di tutte le disposizioni normative che delegano qualche funzione al sindacato. La legge delega al sindacato compiti di vario tipo. Si tratta di disposizioni che regolano i profili più diversi del rapporto di lavoro, chiamando in campo il sindacato. Di carattere regolamentativo: si dice, l'orario di lavoro settimanale è fissato in 40 ore, la contrattazione collettiva può prevedere un orario inferiore e può anche prevedere che le 40 ore siano calcolate come media e non come massimo settimanale. Di carattere deregolamentativo: durante la consultazione nel caso di mobilità, pur di evitare la mobilità stessa, se c'è l'accordo con il sindacato, il datore può spostare il lavoratore a mansioni diverse.
La legge nel diritto del lavoro e sindacale è strettamente intrecciata con la contrattazione collettiva. Questi rinvii esistono già nel codice civile, perchè quando si legge l'articolo 2118 si nota il rinvio al contratto collettivo che stabilisce il preavviso.
La legislazione di rinvio, rinvia al contratto collettivo tutta una serie di funzioni e materie, dalla quale però non sorge quasi mai un obbligo per il sindacato di trattare o di contrattare.
Se non si arriva all'accordo, si applicano le disposizioni di legge. Come nel caso dello spostamento dei lavoratori a mansioni diverse, se non si arriva all'accordo, a quel punto non si spostano i lavoratori a mansioni diverse.
Non esiste a livello generale nel nostro ordinamento un obbligo nè in capo al sindacato nè in capo ai datori a trattare od a contrattare; le uniche eccezioni devono essere chiare e riguardano i casi in cui il datore si sia impegnato contrattualmente a trattare. Ma non ho un obbligo legale: posso avere alcune disposizioni all'interno dei contratti collettivi in cui il datore si obbliga su una materia ad incontrare il sindacato ed eventualmente a raggiungere un accordo. Se il datore si è assunto un obbligo contrattuale, lo deve onerare, altrimenti sarebbe un inadempimento.
Il Decreto Legislativo 276 del 2003 è figlio della Legge Delega 30/03, non riguarda l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, non dice niente sulla concertazione, introduce molta flessibilità a livello di rapporto.
Questo decreto legislativo concentra l'attenzione sul mercato del lavoro spostandola dal rapporto. Abbiamo due oggetti: il rapporto ed il mercato. Quando si parla di rapporto di lavoro si intende la normativa di tutela, tutto quello che riguarda le regole che vincolano il datore ed il lavoratore, quindi s intende quella disciplina standard; il mercato è tutta un'altra dimensione: se parlo di mercato e non di rapporto, non intendo un soggetto che ha già il raporto.
Sulla base di questa distinzione, il professor Ichno ha pubblicato una monografia nel 1996 in cui tratta il problema del rapporto tra gli insiders e gli outsiders. Gli insiders sarebbero i soggetti che sono già dentro la normativa sul rapporto, quindi sono i lavoratori che il rapporto, sia esso tipico od atipico, lo hanno già. Gli outsiders sono i soggetti che non hanno il rapporto, non sono soggetti lavoratori. I lavoratori insiders hanno interesse a massimizzare il livello di tutela, cioè ad avere più tutele possibili. Se un ordinamento totalizza un certo numero di tutele avrà un alto costo del lavoro, perchè la tutela per l'impresa è un costo. Per gli outsiders l'interesse è rappresentato dal trovare un posto di lavoro.
Da ciò si capisce che gli interessi sono contrastanti, perchè più alto è il costo del lavoro meno l'impresa sarà portata ad assumere. Questo è il problema della tematica occupazionale; finchè il diritto del lavoro si è concentrato sulla tutela, si muoveva in un ambito molto semplice, specie quando questa tutela era indirizzata verso un soggetto monolitico come l'operaio della media-grande industria. Quando si è frantumato il sistema produttivo e ci si è ritrovati con tutto un insieme di soggetti, non si sa come raggiungerli e come tutelarli.
La tematica occupazionale è stata il tramite per il quale sono entrate nell'ordinamento gran parte delle istanze di flessibilità, le quali sono nemiche delle istanze di tutela. Quando si dice imprese che pensano al mercato, si pensa alle imprese che deono assumere. Si pensa al mercato quando il soggetto non ha il rapporto di lavoro.
La stessa contrapposizione si trova tra diritto del lavoro classico ed il diritto del lavoro moderno che si deve concentrare anche sul mercato.
E per concentrarsi sul mercato qualche volta si deve abbassare il livello di tutela per incentivare le imprese ad assumere, questo abbassamento si chiama flessibilità, e questa flessibilità chiaramente contrasta con la tutela.
Nel 2006 cambiando compagine governativa, ci sono stati interventi di segno diverso. La Legge Bersani è intervenuta introducendo molte rigidità. Questa legge ha introdotto rigidità in due ambiti soprattutto: nell'ambito degli appalti di prestazione di lavoro, intermediazione di manodopera, e nell'ambito della salute e sicurezza dei lavoratori, in cui si sono ottenuti risultati eccellenti.
Si arriva nel 2008 al Decreto Legislativo numero 81 conosciuto come Testo Unico in materia di salute e sicurezza dei lavoratori.
Nel luglio 2007 è stato stipulato il famoso Protocollo Damiano nel quale si è proposto di reintrodurre tutta una serie di rigidità che erano state smussate dalla legislazione del 2003. Su questo protocollo è scoppiato un problema di tipo endo-sindacale ed anche politico, per cui non tutto quello che c'era nel protocollo è arrivato ad essere legge.
L'esempio di come una normativa flessibile è stata irrigidita è dato dal contratto di lavoro a tempo determinato. Nel contratto di lavoro a tempo determinato la disciplina di base prevede che ci sia un'illimitata possibilità di stipulazione di contratti a termine. La legge chiede una ragione obiettiva. Questa era la flessibilità di partenza. Nel 2007 si è previsto che le parti fossero libere di stipulare contratti a termine, nel limite di un tetto massimo temporale di 36 mesi. Tra due stessi soggetti, si possono stipulare tanti contratti a termine che tutti sommati, a prescindere anche dagli interalli, non devono superare i 36 mesi. Questo è il famoso tetto massimo temporale.
Quindi c'è il momento dell'apertura alla flessibilizzazione con il Decreto Legislativo del 2003, nel 2007 è stato introdotto il tetto massimo, nel 2008 interverrà quella conosciuta come la manovra d'estate, cioè la Legge 133/08. Con questa legge si tenterà di reintrodurre la flessibilità, laddove la legislazione emanata a seguito del protocollo del 2007 aveva reintrodotto delle garanzie rigide. Con la legge 133/08 non è stato abolito il tetto massimo, ma ha previsto con una norma di rinvio ai sindacati la possibilità che i contratti collettivi da questi stipulati, prevedessero delle deroghe al tetto massimo di 36 mesi.
Gli anni 2008 - 2009 sono gli anni della crisi economica e della legislazione che a vario titolo cerca di combatterla. Questa crisi si farà sentire sul versante del diritto sindacale: il 2009 sarà l'anno dell'accordo interconfederale separato. Da questo momento in poi inizierà una sequenza di accordi separati che riguardano tutti i livelli interconfederali, nazionale ed aziendale.
Il 22 gennaio 2009 c'è la stipulazione dell'accordo interconfederale separato molto importante che ha per titolo riforma del sistema contrattuale. Questo accordo si pone in linea di continuità con il Protocollo del 23 luglio 1993, perchè anch'esso aveva a riguardo la struttura del sistema, i livelli contrattuali, la politica dei redditi, il modello della RSU.
La politica dei redditi consisteva nell'incontro, due volte l'anno delle parti, con lo scopo di programmare il tasso di inflazione, il che vuol dire che non è un dato reale ma è un dato concordato dalle parti che prescinde da quello reale. Sulla base di questo tasso d'inflazione programmato i sindacati, una volta ogni due anni stipulavano i rinnovi che si sarebbero basati sul tasso di inflazione programmato.
Questo accordo dice chiaramente che intende sostituire il protocollo del 1993, quanto meno sotto due profili: la politica dei redditi ed il rapporto tra i livelli contrattuali.
Per la politica dei redditi, la finalità è sempre quella di mantenere inalterato il potere d'acquisto del salario, ma si prevede che il tasso di inflazione programmato deve essere armonizzato e deve essere depurato dalle variazioni del prezzo del petrolio.
Quindi il tasso di inflazione programmato, che sre per determinare gli aumenti dei salari, è depurato dalle variazioni del prezzo del petrolio, è stato reso asettico, è stato isolato da una delle voci che spesso fanno correre l'inflazione.
Per quel che riguarda il rapporto tra i livelli contrattuali, il protocollo del 1993 aveva introdotto un'istanza di specializzazione che prevedeva il rapporto tra i livelli fosse basato su specifiche competenze: il nazionale si occupa dei minimi, dei trattamenti standard, dei premi, e l'aziendale si occupa dei superminimi, dei premi aziendali, la retribuzione, la retribuzione accessoria.
Adesso si prevede che il contratto aziendale si occupi sempre di materie i cui confini siano stabiliti dal contratto collettivo nazionale, ed in più l'accordo del 2009 prevede la possibilità, seguendo una complicata procedura, che il contratto aziendale possa disporre diversamente dal nazionale.
Nelle fonti del diritto sindacale classico è stabilito che la fonte inferiore possa sempre derogare in melius la fonte superiore, Il termine diversamente, nell'accordo del 2009 è molto significativo perchè, seguendo una certa procedura, può disporre peggiorativamente sul contratto nazionale.
Tutte queste descrizioni bisogna intenderle, dando per scontato che se non c'è la deregolamentazione, il contratto collettivo non può mai derogare alla legge, perchè fra legge e contratto c'è un rapporto improntato al principio di gerarchia; però il contratto aziendale può derogare al contratto nazionale.
Nell'accordo di Pomigliano non c'era una deroga alla legge, altrimenti la disposizione che contiene una deroga sarebbe stata nulla.
Nell'aprile del 2009 vengono stipulati altri due accordi interconfederali che costituiscono delle intese attuative dell'accordo di gennaio. Sono accordi separati, anche perchè la CGIL non avrebbe potuto firmarli non avendo firmato l'accordo di gennaio 2009.
In settembre - ottobre del 2009 anche la categoria dei metalmeccanici, inizia ad aere il suo contratto nazionale separato, perchè il contratto rinnovato non è sottoscritto dalla FIOM - CGIL. Nel giugno e nel dicembre 2010 vengono stipulati i due contratti aziendali di Pomigliano e Mirafiori. Essendo contratti aziendali, hanno meno problemi di efficacia perchè ci sono tanti argomenti tra cui quello che dice che vincola tutti i lavoratori per l'indivisibilità degli interessi.
Oltre ad essere contratti separati, sostengono una riorganizzazione dei ritmi di lavoro e delle presenze in axienda che richiedono delle deroghe in senso peggiorativo.
L'intensificazione del ritmo, diverso da quello che dice il contratto di categoria, è un peggioramento. Il peggioramento riguardava anche il controllo delle presenze in azienda: si è detto che per controllare l'assenteismo era necessario introdurre qualche sistema come quello della carenza. Questo sistema della carenza prevede che i primi tre giorni di malattia non vengono retribuiti, per evitare l'assenteismo anomalo ricorrente.
Il nostro sistema dal punto di vista dell'informalità, della compatibilità con le poche leggi che ci sono, tollera questo fatto in sè.
L'articolo 39 comma 1 della Costituzione è sempre stato attuato, questo è un caso di pluralismo: se un sindacato non vuole più aderire ad un soggetto, ad un sindacato di secondo livello, può revocare la sua adesione.
Il nostro diritto sindacale è come un puzzle, prima di dare una valutazione bisogna fare una ricostruzione dell'assetto delle fonti: si deve iniziare dalla legge per poi arrivare al contratto collettivo e la giurisprudenza.
Tematiche del diritto sindacale.[]
Le attività - funzioni sono essenzialmente due: stipulazione di contratti collettivi e conflitto.
è diventato importante riuscire a determinare nel modo più preciso possibile il legame, il vincolo, che c'è tra i lavoratori ed i soggetti che li rappresentano. Questo vincolo è espresso in termini di rappresentanza o di rappresentatività.
La rappresentanza è un istituto civilistico che consente una sostituzione di soggetti, perchè il rappresentante agendo in sostituzione del rappresentato può compiere atti i cui effetti ricadono nella sfera del rappresentato. Questo potere di rappresentanza deve essere conferito. Può essere conferito con la procura. Nel caso del sindacato c'è un orientamento del mandato con l'iscrizione.
La rappresentanza del sindacato è civilisticamente circoscritta al numero dei soggetti lavoratori che si sono iscritti. L'insieme degli iscritti ci dà la misura della rappresentanza del sindacato.
La rappresentatività non è un concetto giuridico, è un concetto di fatto, politico. è la capacità che ha un soggetto collettivo di tutelare adeguatamente gli interessi del gruppo di riferimento e di aggregare conenso attorno a sè. Per conenso non si intende in questo caso l'iscrizione, ma è riferito al consenso dei non iscritti.
Il sindacato in Italia è sempre stato più rappresentativo che rappresentante: è sempre riuscito a tutelare una cerchia di lavoratori che andava al di là degli iscritti e che spesso copriva tutta la categoria di riferimento.
Il concetto di rappresentatività è fattuale, politico, ed indica la capacità che ha il sindacato di rappresentare efficacemente, adeguatamente, il gruppo di riferimento. La rappresentanza si misura contando gli iscritti.
Visto che importantissime disposizioni di legge rinviano al sindacato, o maggiormente rappresentativo o rappresentativo, funzioni importanti come la deregulation o la capacità di integrare la legge, diventa necessario capire come individuare i sindacati rappresentativi, per capire se il contratto collettivo da loro stipulato è applicabile ad integrazione del precetto legale.
Il sindacato maggiormente rappresentativo o rappresentativo è investito di tantissime funzioni.
Per un lunghissimo periodo è toccato ai giudici stabilire la maggiore rappresentatività, che hanno determinato dei criteri in base ai quali individuare la maggiore rappresentatività:
- Il numero degli iscritti, che può essere ricavato dall'interprete contando le deleghe che il lavoratore fa al datore per effettuare la trattenuta in busta paga,
- La diffusione territoriale delle strutture del sindacato, con riferimento minimo all'interregionalità, o meglio che il sindacato sia diffuso in tutto il territorio nazionale.
- L'intercategorialità con la quale si intende la presenza di quel sindacato in un ampio numero di categorie. Questo terzo indice è qualificante, perchè sulla base di questo criterio elaborato dai giudici, di fatto un certo tipo di sindacato è rimasto fuori dalla maggiore rappresentatività. Usando questo criterio non sono mai riusciti ad avere il riconoscimento di rappresentatività, e quindi a formare proprie RSA in azienda, i sindacati monocategoriali. Chi ha un'intercategorialità in questo senso, è quasi sempre una confederazione, cioè un sindacato di secondo livello cui aderiscono sindacati nazionali di primo livello.
- La capacità di essere interlocutori al tavolo delle trattative triangolari od al tavolo della concertazione. Se un sindacato è riuscito a raggiungere i tavoli delle trattative, non solo nazionali, di vertice dove partecipa anche il Governo, per andare a disciplinare grandi istituti come ad esempio le pensioni o la scala mobile, è chiaro che è rappresentativo.
- Aver stipulato contratti collettivi applicati nell'unità produttiva. è importante perchè se il sindacato ha stipulato un contratto collettivo che disciplina il rapporto di lavoro, ha la forza. Questo indice è superstite della lettera B dell'articolo 19 dello Statuto dei lavoratori.
- La vivacità che ha dimostrato il sindacato nel proclamare gli scioperi ed il seguito che ha ottenuto.
Questi sono i criteri elaborati dalla giurisprudenza che tra l'altro è stata costretta, perchè non c'erano altri criteri per stabilire la rappresentatività previsti direttamente dal legislatore. è successo che la giurisprudenza tendesse a dare un monopolio rappresentativo ai sindacati confederali storici, soprattutto perchè si usava il criterio dell'intercategorialità.
Il legislatore dopo il referendum del 1995 ha iniziato ad usare la formula comparativamente più rappresentativo.
Oggi si possono trovare tre tipi di formule: ancora il maggiormente rappresentativo, rappresentativo o comparativamente più rappresentativo.
Alcuni sostengono che sono sinonimi, però c'è una differenza tra maggiormente rappresentativo e comparativamente più rappresentativo. Il maggiormente non lo si deve intendere come una comparazione relativa. Quando si parla di sindacato rappresentativo si parla della stessa cosa, il maggiormente poteva essere omesso, perchè vuol dire comunque sindacato forte. Il rappresentativo oggi è inteso come soglia minima di rappresentatività. Quando si è iniziato ad usare la formula comparativamente più rapresentativo ci porta di più verso il comparativo relativo, cioè verso un confronto fra grandezze.
Il legislatore per definire la grandezza della rappresentatività, forse vuol far fare veramente una comparazione ed a quel punto si ha la comparazione relativa.
Quando si ammettono una pluralità di soggetti a svolgere la stessa funzione si è di fronte ad un maggiormente assoluto. Quando la pluralità di sindacati ha iniziato a dividersi stipulando contratti separati, il legislatore per certe questioni ha introdotto una comparazione relativa con la formula comparativamente più rappresentativo.
Per misurare il maggiormente rappresentativo si seguono i criteri elaborati dalla giurisprudenza, che sono i criteri cui fa riferimento la cosiddetta legislazione di rinvio.
Il maggiormente rappresentativo non esclude gli altri sindacati, che però dovevano essere affidabili.
Il comparativamente più rappresentatifo forse è nato per escludere gli altri, però ancora adesso si dubita, perchè quando si deve scegliere si creano sempre grossi problemi.
Quando bisogna scegliere i sindacati si hanno due possibilità: o si conta la consistenza del sindacato per fare una comparazione relativa o si chiede ai lavoratori quale contratto vogliono.
Se si chiede ai lavoratori si lascia fa parte la rappresentatività e si valorizza il criterio di maggioranza, il quale è sempre stato estraneo alle nostre relazioni industriali. Quasi mai i sindacati dopo aver firmato un contratto hanno indetto un referendum per capire la volontà dei lavoratori; è stato fatto ultimamente a Pomigliano e Mirafiori perchè erano accordi contestatissimi. Questi due accordi sono stati stipulati secondo la rappresentatività dai sindacati classici, salvo la CGIL, quindi si può dire maggiormente rappresentativi, ma essendo un accordo particolare e zoppo edallora si è pensato bene di indire una consultazione, nella quale i lavoratori, nella maggioranza, si sono espressi a favore dell'accordo.
Il concetto di sindacato rappresentativo indeso anche come maggiormente è inclusivo, non esclusivo; poteva succedere che qualche sindacato decidesse di non trattare, ma nessuno lo escludeva.
Il sindacato rappresentativo si impone nel privato e stipula il contratto, se poi si scopre che quel contratto è zoppo perchè dei sindacati presenti uno, che ha cercato di imporsi, lascia il tavolo, il contratto è valido, è un contratto collettivo che contiene la regolamentazione dei rapporti di lavoro.
Il sindacato comparativamente più rappresentativo è stato introdotto dal 1995, perchè per calcolare i contributi INPS bisogna avere dei minimi di salario e si poneva il problema di quali minimi scegliere. Il legislatore quindi nel 1995 ha deciso che i contributi previdenziali INPS si calcolano sui minimi che sono contenuti nei contratti stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi. Ha usato il termne in questa occasione per la prima volta perchè c'era stato il problema dei contratti pirata che cercavano di costituire dei nuovi minimi, con il quale c'era il pericolo che si calcolassero degli altri contributi previdenziali, che invece naturalmente devono essere uguali per tutti. Quindi il legislatore per evitare queste interferenze dei contratti pirata, ha smesso di usare il termine maggiormente rappresentativo che era troppo inclusivo, ed ha iniziato ad usare il comparativamente più.
Nel settore pubblico la rappresentatività è disciplinata. Per garantire il settore pubblico come erogatore di servizi, e come realizzatore degli interessi pubblici, non si ritiene ammissibile che tutte le sigle che si ritengono rappresentative debbano andare al tavolo delle trattative.
Per la parte datoriale tratta l'ARAN che è un organismo tecnico scelto dal Governo. L'ARAN non deve convocare tutte le sigle: se ci fosse il criterio del maggiormente rappresentativo, avrebbe avanti a sè tantissime associazioni ed organizzazioni sindacali.
Per ordinare il sistema nel settore pubblico, si è deciso di definire la rappresentatività con una soglia e due criteri.
Il Decreto Legislativo 165/01 stabilisce che è rappresentativo il sindacato che raggiunge il 5% di rappresentatività riguardo al comparto od all'area di riferimento. Come si fa a calcolare se raggiunge il 5%? CI sono due criteri: associativo ed elettorale. Criterio associativo: si contano le deleghe che i lavoratori fanno al datore di lavoro per la trattenuta in busta paga dell'equivalente della quota associativa. Ogni delega rappresenta un iscritto. Criterio elettorale: si contanto i voti riportati dalle schede presentate dalle diverse sigle in occasione delle elezioni delle RSU.
Bisogna fare un mix fra i du criteri per capire se si arriva alla soglia del 5%: è un'operazione molto complessa tant'è che è stato istituito un comitato in seno all'ARAN costituito da propri dipendenti. Il risultato delle valutazioni del comitato si presta molto spesso a contestazioni, rivalutazioni, verifiche. Chi raggiunge il 5% viene convocato dall'ARAN.
Nel settore privato, dopo i due anni di accordi separati, il 28 giugno 2011 le parti sociali di nuovo unite hanno concluso un accordo interconfederale che consta di 8 punti, ed il cui primo punto contiene la definizione di rappresentatività nel settore privato, che viene definita emulandola dal settore pubblico. L'accordo del giugno 2011 dice infatti che sono rappresentativi i sindacati che raggiungono la soglia del 5% facendo una media tra il dato associativo ed il dato elettorale.
In questo accordo non si dice che i sindacati rappresentativi devono stare al tavolo delle trattative, si definisce la rappresentatività, non si dice se solo con quella soglia puoi godere dei diritti, e non si spiega neppure se il datore è costretto ad ammettere al tavolo delle trattative il sindacato con il 5%.
Nonostante questo accordo che ha definito i sindacati rappresentativi, ci sono dubbi se questa soluzione individui la maggiore rappresentatività. Qualcuno ha proposto di chiamare la rappresentatività del 5% nel pubblico la rappresentatività sufficiente.
Il contratto collettivo.[]
L'inderogabilità del contratto collettivo ad opera del contratto individuale.[]
Il contratto individuale fonda il rapporto di lavoro: è quello che ne determina l'esistenza.
Il contratto collettivo contiene il vero nucleo della disciplina del rapporto di lavoro: si trovano tutte le regole che disciplinano l'orario, le ferie, i permessi, il codice disciplinare. Detta una disciplina che è settoriale, per ciascuna categoria merceologica o settore produttivo.
La legge costituisce il quadro generale delle regole valevoli all'interno di tutto l'ordinamento, in modo trasversale per tutte le categorie di lavoratori.
La regola dell'inderogabilità unilaterale con efficacia reale del contratto collettivo ad opera del contratto individuale significa che, secondo le regole del nostro ordinamento, il contratto individuale non può disporre trattamenti economici e normativi peggiorativi per il lavoratore rispetto a quanto previsto dal contratto collettivo applicabile a quel rapporto lavorativo. Quindi la regola che disciplina il rapporto tra contratto individuale e contratto collettivo è l'inderogabilità unilaterale in peius con efficacia reale.
Con efficacia reale si intende che nel caso in cui vi sia un trattamento peggiorativo da parte del contratto individuale rispetto al contratto collettivo, la conseguenza è l'automatica sostituzione delle clausole di contenuto peggiorativo con quelle più favorevoli per il lavoratore previste dal contratto collettivo.
Per arrivare a dire che tra queste due fonti del diritto del lavoro, tra questi due contratti, la dottrina e la giurisprudenza hanno sviluppato un intenso dibattito; questa regola non è stata chiara fin dal principio, si è dovuti arrivare a costruire un fondamento giuridico che giustificasse questa regola.
Perchè la dottrina e la giurisprudenza hanno dovuto impegnarsi per stabilire che quanto stabilito nel contratto collettivo non può essere modificato dal contratto individuale? Perchè il problema di fondo era la debolezza del prestatore di lavoro subordinato.
L'idea era quella che se non si affermava l'inderogabilità del contratto collettivo, tutte le garanzie e le tutele conquistate a livello sindacale potevano essere facilmente vanificate da una contrattazione individuale.
Per evitare di lasciare in mano alla contrattazione individuale la disposizione di diritti conquistati a livello collettivo si doveva ricostruire l'intangibilità della contrattazione collettiva.
La finalità di queste operazioni era quella di salvaguardare la funzione economica e sociale del contratto collettivo, per quanto riguarda tutto l'apparato di garanzie che il sindacato riusciva a conquistare all'interno della contrattazione.
Sono state elaborate delle teorie per arrivare a questo risultato.
Rappresentanza: il contratto collettivo, a seguito dell'inattuazione dell'articolo 39 della Costituzione, deve considerarsi un contratto di diritto comune. Quando si è dovuto spiegare come facesse un contratto concluso dai sindacati dei datori di lavoro e dai sindacati dei lavoratori, ad essere applicato nei confronti dei lavoratori, che non avevano partecipato al tavolo delle trattative, che erano estranei ad una contrattazione alla quale si applicavano i principi civilistici, la dottrina ha fatto riferimento ad un altro istituto civilistico, cioè la rappresentanza. Il contratto collettivo esplica la sua efficacia nei confronti di tutti i lavoratori attraverso l'istituto della rappresentanza.
Sulla base di questa ricostruzione, essendo che il lavoratore è il dominii negotii, è titolare del potere contrattuale, il diritto civile gli riconosce sempre il potere di revocare il mandato e dunque di concludere un accordo difforme ed in deroga a quanto stabilito dai rappresentanti. Abbiamo sempre la possibilità riconosciuta al singolo lavoratore, in fase di contrattazione del contratto individuale, di vanificare le garanzie stabilite dal contratto collettivo.
Le teorie che partono da questa situazione di fatto, della ricostruzione del contratto e dell'istituto della rappresentanza, per arrivare a dire che in realtà il contratto collettivo è inderogabile ad opera dei contratti individuali, sono molteplici.
Santoro Passarelli: ha pensato una correzione alla teoria della rappresentanza, per arrivare a dire che non può il singolo lavoratore disporre in modo diverso a livello di contrattuale da quanto disposto in sede di contrattazione collettiva. Santoro Passarelli richiama gli articoli 1723 comma 2 e 1726 del codice civile che hanno ad oggetto l'irrevocabilità del mandato conferito nell'interesse del mandatario o di terzi o di più persone per un interesse comune. Entrambe le norme dicono che in queste ipotesi il mandato conferito ai sindacati sta sia nell'interesse di terzi sia nell'interesse comune di più persone, una volta che i lavoratori hanno dato mandato all'associazione sindacale, non possono più esercitare il legittimo diritto di revocare quel mandato e quindi di disporre del potere in sede di contrattazione individuale. Questa teoria raggiunga l'obiettivo dell'inderogabilità del contratto collettivo ad opera del contratto individuale perchè c'è l'irrevocabilità del mandato. Questa teoria congela i poteri in capo al sindacato e non consnte all'individuo, è vero di prevedere disposizioni peggiorativi, ma non consente neppure modifiche in senso migliorativo. Quindi la regola è dell'inderogabilità unilaterale in peius con efficacia reale ma è sempre ammessa la derogabilità in melius del contratto collettivo ad opera del contratto individuale. Il contratto individuale non può mai disporre in senso peggiorativo, ma può sempre disporre in senso migliorativo rispetto al contratto collettivo.
Cessari e Cataudella, teoria della dismissione dei poteri: il presupposto di questa teoria non è tanto diverso da quella precedente. Secondo Cessari nel momento in cui i lavoratori si iscrivono al sindacato si assoggettano totalmente al potere dei sindacati di dettare regole, così dismettono a favore dell'organizzazione il potere di regolamentare automaticamente il proprio rapporto di lavoro. Anche in questo caso si impedisce la modifica in peius ma vieta anche eventuali trattamenti migliorativi. Nel primo caso c'è un fondamento giuridico più solido parlando di irrevocabilità del mandato conferito nell'interesse di più persone per un interesse comune, si fa riferimento ad un articolo del codice civile. In questa teoria non si fa riferimento all'istituto della rappresentanza ne ad una disposizione del codice civile, non ha una giustificazione tecnica, semplicemente ricostruisce l'adesione al sindacato come un assoggettamento del lavoratore al potere del sindacato medesimo. Interviene nella discussione anche la giurisprudenza la quale, attirandosi molte critiche, si limita a richiamare un riferimento sicuro: l'articolo 2077 del codice civile. Questo disciplina l'efficacia del contratto collettivo corporativo rispetto al contratto individuale. La dottrina critica aspramente questa conclusione della giurisprudenza, fino a determinarne l'inapplicabilità, perchè la norma ha ad oggetto il contratto collettivo corporativo. Di conseguenza la dottrina sostiene che è una norma che, con la caduta del fascismo e del regime corporativo, si deve ritenere non più operativa. La giurisprudenza, rispondendo alle critiche della dottrina dice che l'articolo 2077 del codice civile non è una norma espressamente abrogata e non è inconciliabile con l'ordinamento repubblicano, di conseguenza potrebbe tranquillamente continuare ad esistere.
Scognamiglio: per recuperare l'intangibilità del contratto collettivo, questo autore afferma che il contratto collettivo è intoccabile ad opera del contratto individuale perchè il sindacato esercita un potere autonomo di regolamentazione del rapporto di lavoro nel momento in cui stipula il contratto collettivo. Quello del sindacato è un potere autonomo, qualitativamente diverso, da quello che esercitano i singoli individui nella conclusione del contratto individuale. Secondo Scognamiglio il problema non si dovrebbe neppure porre perchè al momento in cui il sindacato conclude un contratto collettivo lo fa in virtù di un potere autonomo, indipendente, che gli viene riconosciuto dall'ordinamento.
Per argomentare in modo definitivo ed ad oggi valevole il rapporto tra contratto individuale e contratto collettivo come inderogabilità unilaterale in peius, la dottrina ha chiamato in causa l'articolo 2113 del codice civile. Secondo l'articolo 2113
le rinunzie e le transazioni, che hanno per oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti od accordi collettivi concernenti i rapporti di lavoro subordinato, non sono valide.
Questo articolo costituisce le fondamenta dell'inderogabilità unilaterale in peius del contratto collettivo ad opera del contratto individuale perchè parla di rinunce e transazioni che hanno un connotato negativo, e lascia presupporre che tutto quello che è migliorativo sia ammesso. Dal punto di vista più tecnico la disposizione è importantissima perchè dice che sono inderogabili le disposizioni che derivano dalla legge e dal contratto collettivo: così facendo il legislatore mette sullo stesso piano la legge ed il contratto collettivo riconoscendo a quest'ultimo la stessa efficacia della legge. Il contratto individuale si comporterà nei confronti del contratto collettivo, così come si comporta nei confronti della legge: potrà derogare solo in meglio e mai in senso peggiorativo. L'inderogabilità unilaterale in peius fonda sull'articolo 2113 ed è relativa al rapporto fra contratto individuale e contratto collettivo. La derogabilità in melius è stabilita dalla gerarchia delle fonti che dal punto di vista del diritto del lavoro non fa altro che stabilire l'nderogabilità in peius e la sola derogabilità in melius. I problemi dei contratti in deroga e del contratto collettivo che può derogare a quanto previsto dalla legge e del contratto aziendale che può derogare a quanto previsto dal contratto nazionale, attengono ai rapporti tra contratto collettivo e legge e tra contratto collettivo aziendale e nazionale, non vanno a toccare contratto individuale e contratto collettivo.
Il contratto individuale è fondamentale dal punto di vista della sussistenza, dell'esistenza, del rapporto di lavoro perchè ne è la fonte. Può derogare solo in melius e mai in peius il contratto collettivo. Nel diritto del lavoro si parla di contrattualità del rapporto, ciò significa che un rapporto di lavoro nasce dal contratto e ci trova la fonte ed i limiti. Questi limiti devono combinarsi dal punto di vista della disciplina con tutto quello che dice il contratto collettivo e la legge.
Problema dell'efficacia del contratto collettivo: un problema è relativo all'efficacia soggettiva, l'altro dell'inderogabilità unilaterale con efficacia reale del contratto collettivo ad operavello del contratto individuale.
A livello aziendale abbiamo strutture specifiche che sono destinatarie dei diritti previsti dalla legislazione di sostegno e rappresentano un centro di contropotere.
Esistono sistemi a canale doppio e sistemi a canale unico.
Il sistema a canale doppio, che non è il nostro, prevede una duplicità di strutture di rappresentanza degli interessi dei lavoratori ed una duplicità di funzioni. Per duplicità di struttura si intende una struttura fuori dall'azienda ed una dentro l'azienda. I veri sistemi a canale doppio vedono fuori dall'azienda i sindacati, che si fondano sulla base del principio associativo, e svolgono la funzione di contrattazione.
Quindi il doppio canale ha il sindacato nazionale fuori dall'azienda, principio associativo e come strumento il contratto collettivo e lo sciopero. Dentro l'azienda, ci sono organismi di rappresentanza dei lavoratori che vengono costituiti su base elettiva che svolgono la funzione di partecipazione che può essere più o meno intensa a seconda delle disposizioni di legge o di contratto collettivo che la regolano. Questi organismi interni che sono eletti, potrebbero costituirsi in modo astratto rispetto alle logiche esterne, anche se non è mai così perchè il sindacato esterno segue, condiziona, influenza. Nel doppio canale c'è un'autonomia di struttura e di funzione a seconda se si stia fuori o dentro l'impresa: dentro il modello è elettivo e la funzione è partecipativa, fuori il modello è associativo e la funzione è contrattuale.
Il sistema a canale unico è molto confuso e spesso è un sistema non eteronomo.
In questo sistema non c'è una duplicità vera e propria di strutture.
Facciamo riferimento all'articolo 19 che ha introdotto la RSA od all'altro modello che ha introdotto la RSU. In entrambi questi modelli, l'organismo sindacale in azienda è una derivazione più o meno forte, diretta, del sindacato esterno, tant'è che qualcuno ha parlato in riferimento al canale unico di unicissimo.
Le RSA fin dal 1970 hanno il potere di contrattazione aziendale, le RSU idem, perchè si pongono come eredi di RSA anche se non le ha sostituite in ogni luogo ed in alcune realtà convivono.
L'Italia ha sempre avuto una certa resistenza verso il canale doppio. Per capire se si è di fronte al doppio canale, bisogna guardare le rappresentanze in azienda.
Un modello presente nel nostro paese fin dal 1943 - 1944 è la commissione interna. Questa commissione era un organo a-sindacale perchè veniva eletta da tutti i lavoratori dell'azienda. Non avendo contatti con il sindacato esterno, la commissione interna pativa di una pesante limitazione che era l'assenza del potere di contrattazione collettiva.
Il datore ha dei determinati poteri, peraltro unilaterali, dove lo si vuole rallentare, dove il sindacato vuole controllare le fasi dell'esercizio di questo potere, anche per obbligarlo ad un contraddittorio, lo si procedimentalizza.
La commissione interna aveva una disciplina solo su base contrattuale, cioè era tutta disciplinata in modo autonomo. La commissione interna era a-sindacale ed elettiva, priva dei poteri formali di contrattazione.
I sindacati si resero presto conto che per tutelare al meglio gli interessi dei lavoratori nell'impresa, dovevano entrare nei luoghi di lavoro, anche perchè gli anni 60 - 70 sono quelli che hanno visto la centralità del prototipo del diritto del lavoro che è l'operaio impiegato nella media grande impresa.
Il sindacato negli anni '60 istituì le cosiddette Sezioni Sindacali Aziendali che non erano proprio dentro l'azienda, ma erano ramificazioni del sindacato territoriale esterno che cercavano di collocarsi il più vicino possibile alle imprese. Le SSA sono il contrario delle Commissioni Interne perchè, oltre a stare fuori dall'impresa e non dentro, sono organismi sindacali non eletti dai lavoratori ed i soggetti che ne facevano parte venivano designati dai lavoratori ed i soggetti che ne facevano parte venivano deignati dai sindacati territoriali. Le SSA avevano il potere di contrattazione; i contratti che stipulavano erano contratti territoriali: incontravano tre - quattro datori di lavoro operanti sul territorio e stipulavano un contratto che era vero e proprio contratto collettivo.
Il principio associativo è quello tipico su cui si fonda il nostro sindacato, è sempre stato il principio prediletto; poi, che nell'articolo 39 comma 1 della Costituzione sia dichiarata la libertà di organizzazione è un altro discorso. L'associazione richiede un atto costitutivo, uno statuto, uno scopo, un patrimonio; l'organizzazione può essere qualcosa di transeunte. Bisogna distinguere fra organizzazione sindacale ed associazione sindacale. Molti sindacati hanno la sola forma dell'organizzazione, ma il sindacato tradizionale, quello considerato più affidabile ha forma associativa.
Il principio elettivo è sempre stato vissuto come un nemico, perchè i lavoratori spesso perseguono finalità di microcorporativismo.
Negli anni '60 il sindacato ha cercato di avvicinarsi ai luoghi di lavoro con le SSA ma successe che la realtà economica e sociale prese la mano: a livello aziendale i gruppi di lavoratori omogenei hanno iniziato a scioperare ed a rivendicare situazioni tutte loro. Il sindacato si è trovato con situazioni aziendali che scappavano in avanti, perchè in alcune aziende riuscivano ad avere livelli maggiori di tutela a livello aziendale rispetto a quelli garantiti a livello nazionale. C'è stato un balzo in avanti della contrattazione aziendale ad opera di questi gruppi di lavoratori cosiddetti omogenei, che si trovavano a creare i delegati che poi formavano i consigli dei delegati che poi diventeranno il Consiglio di fabbrica.
Nel 1970 è stato emanato lo Statuto dei lavoratori che formalizza con l'articolo 19 l'ingresso del sindacato in azienda creando la RSA.
La RSA è in modello a canale unico ma anche un modello aperto. L'articolo 19 è una norma retta dal principio associativo, prevede fondamentalmente due criteri per la costituzione della RSA.
L'articolo 19 nella formulazione del 1970 dice:
le rappresentanze sindacali aziendali possono essere costituite ad iniziatie dei lavoratori in ogni unità produttiva, nell'ambito:
A) delle organizzazioni sindacali aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale (questa era la lettera della maggiore rappresentatività presunta).
B) delle associazioni sindacali, non affiliate alle predette confederazioni, che siano firmatarie di contratti collettivi nazionali o provinciali di lavoro applicati nell'unità produttiva (questa era la lettera della maggiore rappresentatività effettiva).
Primo requisito: ad iniziativa deli lavoratori vuol dire tutto, nel senso anche ad iniziativa di un solo lavoratore che chiama il sindacato dicendo di far parte, ad esempio, di un'unità produttiva di 16 lavoratori e chiedendo al sindacato esterno, di riconoscere una sua RSA dentro l'unità.
Secondo requisito: nell'ambito. è il requisito del legame con il sindacato esterno e dentro ci sono le lettere A e B. Questo secondo requisito si sdoppia, perchè il legame si deve avere o con i sindacati previsti dalla lettera A o quelli previsti dalla lettera B.
La lettera A poteva essere qualunque sindacato, bastava che fosse aderente alle confederazioni maggiormente rappresentative. Questa è la norma dello Statuto che più di tutte ha sostenuto il nostro sindacalismo classico, tradizionale, intercategoriale, associativo.
L'effetto promozionale stava nel fatto che in questo modo si sollecitavano i sindacati ad aderire a CGIL, CISL e UIL, perchè se aderivano, anche se valevano poco in termini di iscritti, potevano avere una RSA.
Questa rappresentatività è presunta perchè non si chiedeva niente ai sindacati, era una patente di rappresentatività.
La lettera B: visto che il legislatore si è reso conto che da sola la lettera A perchè sarebbero entrati in azienda solo CGIL, CISL e UIL e poteva esserci una collisione con l'articolo 39 comma 1 della Costituzione perchè la libertà sindacale è garantita a tutti. La libertà sindacale ha anche la parte negativa, nel senso di non adesione.
Il modello della RSA è forgiato sul principio associativo, è libero, appartiene in pieno al canale unico.
Il legislatore usa le RSA perchè quando ha introdotto la deregulation e ha dovuto dare ai sindacati aziendali poteri di gestire le situazioni di crisi di impresa, si è rivolto alle RSA e ha dato loro il potere di contrattare in deroga.
La RSA svolgeva anche un'altra importante funzione: ha svolto un ruolo di contenimento rispetto agli avvenimenti degli anni '60 che erano stati all'insegna del movimento e che erano sfuggiti di mano ai sindacati esterni. Il sindacato esterno aveva capito che se voleva stare sul fronte del conflitto doveva entrare in azienda.
L'articolo 19 può essere letto sia sotto un'ottica movimentistica che sotto un'ottica di istituzionalizzazione relativa del sindacato esterno in azienda. Ha una doppia valenza perchè tutti quelli che erano i delegati, sono stati recuperati e battezzati come RSA ed a quel punto avevano un legame per forza con il sindacato. I delegati degli anni '60 non avevano i diritti, con l'ingresso delle RSA, che richiedevano il legame con il sindacato esterno che le dovevano riconoscere, i diritti erano concessi su base legale dello Statuto. In quel periodo c'era l'unità sindavale, CGIL, CISL e UIL insieme rappresentavano i 4/5 del mondo del lavoro, ed essendo uniti la lettera A ha avuto da subito un significato pienissimo.
Dagli anni '70 in poi il quadro si decompone: frammentazione del mondo produttivo, innovazione tecnologica, si espande il terziario ed il mondo del lavoro diventa eterogeneo, inizio di stipulazione di contratti in perdita e partecipazione.
Se fossero state abolite le lettere, l'articolo 19 avrebbe avuto questo tenore:
le rappresentanze sindacali aziendali possono essere costituite ad iniziativa dei lavoratori in ogni unità produttiva.
Ciò spaventava anche i datori di lavoro perchè si rischiava che le aziende diventassero il regno del microcorporativismo, dal momento che la versione che poteva assumere l'articolo 19 lasciava le RSA ai lavoratori dell'azienda ma senza il filtro del sindacato.
Nel 1993 viene stipulato il protocollo del 23 luglio. In questo protocollo si dice: si auspica che in azienda venga costituito un nuovo modello di rappresentanza dei lavoratori unitario, cioè un modello che tenga conto di tutte le sigle che possano avere un'influenza all'interno dell'azienda, e che sia aperto ai non iscritti.
I caratteri discriminanti sono due: l'unitarietà e la natura elettiva.
Il sindacato per recuperare consenso si è aperto al criterio elettorale ma non lo ha fatto per tutti i componenti, ma si è tenuto 1/3. Il canale unico trova all'interno della RSU una sua conferma totale con la divisione 1/3 sindacato e 2/3 di RSU eletti.
Il protocollo del 23 luglio 1993 prevedeva l'auspicio della creazione delle RSU; l'accordo interconfederale del 20 dicembre 1993 contiene la disciplina sulle RSU.
La RSU era stata pensata come modello alternativo alle RSA, anche se poi di fatto si colloca in linea di continuità. La RSU ha due profili di apertura inediti: è una struttura sindacale ma di matrice elettiva e mantiene un tratto di continuità che si traduce con la riserva del terzo; tra i sindacati che sono abilitati a presentare le schede, sulle quali sono chiamati a votare a scrutinio segreto i lavoratori, ci sono i sindacati classici che vengono individuati tra i sindacati che hanno sottoscritto l'accordo del 1993 o che hanno sottoscritto il contratto collettivo applicato nell'unità produttiva.
La novità si trova nell'accordo del 20 dicembre 1993 che prevede che possano presentare liste anche sindacati che raccolgano iò 5% del consenso degli appartenenti all'unità di riferimento. Questo significa anche i sindacati cosiddetti monocategoriali, un tempo esclusi dall'articolo 19.
Ora questi sindacati che continuano a non essere sottoscrittori, possono presentare schede alle elezioni RSU se raccolgono il 5% di consenso degli appartenenti all'unità produttiva.
Anche il modello delle RSU innova si pone in continutià con l'articolo 19. Perchè? Innanzitutto l'iniziativa dell'elezione spetta ai sindacati che hanno sottoscritto l'accordo del 1993 oppure il contratto collettivo applicato all'unità produttiva: ma visto che questi sindacati potranno presentare schede e saranno la gran parte, saranno gli stessi che avrebbero potuto chiedere la costituzione di RSA perchè corrispondono perfettamente al requisito della lettera B dell'articolo 19.
La RSU ha rappresentato una rivoluzione nel modello perchè è un modello elettivo, ma non dal punto di vista di chi la ha utilizzata perchè l'accordo, dall'angolazione funzionale la RSU eredita le stesse funzioni della RSA che sono le classiche funzioni di contrattazione e partecipazione.
Tutto ciò sta a dire che è confermato il canale unico perchè nell'unica struttura abbiamo, è vero, la procedura elettorale ma i lavoratori votano su schede presentate dai sindacati ed i soggetti su cui cade la scelta dei sindacati saranno soggetti appunto sindacali.
In più il nostro sindacato ha avuto il timore di aprire completamente il modello elettivo, ed è per questo motivo che l'accordo del dicembre 1993 prevede che non tutti i componenti vengano eletti e con la cosiddetta clausola del terzo riservato, si disponde che 1/3 delle RSU vengano desingate dai sindacati firmatari del protocollo del luglio 1993 oppire dai sindacati sottoscrittori del contratto collettivo applicato nell'unità produttiva.
Adesso i modelli sono due: uno legale della RSA ed uno contrattuale della RSU. In teoria i sindacati possono anche scegliere: un sindacato che vuole cimentarsi con le elezioni deve rinunciare alla RSU, e può decidere di chiedere, se è un sindacato che ha il requisito della lettera B dell'articolo 19 di formare una sua RSA ed il datore non gliela potrà rifiutare.
Il punto 8 dell'accordo del 20 dicembre 1993 prevede chiaramente che i sindacati che esercitano l'iniziativa per la costituzione di RSU e che poi partecipano alle elezioni presentando le loro schede, debbano rinunciare alla costituzione di RSA. Questa è una clausola di un accordo e quindi c'è l'assunzione di un obbligo, ma se il sindacato in teoria non rispettasse questa clausola, la RSA eventualmente costituita non si potrebbe dire che è invalida, perchè non c'è nessun contrasto con norme di legge, si potrebbe solo dire che quel sindacato è inadempiente nei confronti dell'obbligo di rinuncia contenuto nell'articolo 8 dell'accordo 20 dicembre.
Secondo qualcuno i risultati del refererendum del 1995 sarebbero stati traditi o cancellati dall'effettività: perchè tutti i sindacati che costituivano le RSA passando dalla lettera A dell'articolo 19, sono poi di fatto quelli che hanno stipulato la maggior parte degli accordi stipulati nell'unità produttiva.
I sindacati che siedono al tavolo delle trattative e stipulano i contratti sono per la quasi totalità aderenti alle confederazioni, i sindacati autonomi che sono molto attivi dal punto di vista del conflitto difficilmente sono accettati come interlocutori in sede contrattuale.
Questa duplicità di modello RSA e RSU che è una duplicità di accesso alla legislazione di sostegno è stata confermata da due cose: anche nel pubblico impiego il 7 agosto 1998 è stato stipulato un contratto collettivo quadro che regola le RSU nel settore pubblico; l'altra conferma che è intervenuta nell'accordo del 28 giugno 2011 che introduce una regola molto innovativa, in risposta alla questione dei contratti separati, che è quella del criterio della maggioranza.